SCIAMANESIMO 4
da “Enciclopedia olistica”
di Nitamo Federico Montecucco ed Enrico Cheli
Il ” volo magico ” dei Jhakri, gli sciamani del Nepal.
di Italo Bertolasi
Li ho incontrati la prima volta in Nepal trent’anni fa. Allora ero anch’io un pellegrino diretto ad
Oriente e a mete che non erano luoghi precisi. Mie le parole di Hermann Hesse: ” quel viaggio non
era solo mio e del mio tempo: quella colonna di devoti in cammino non era che un’onda nella perpetua
corrente delle anime verso il mattino. Il nostro oriente non era soltanto un paese, ma era la
patria, la giovinezza dell’anima. Era il Dappertutto e l’In-Nessun-Luogo “.
Viaggiavo a piedi – allora era di moda – assieme ad altri nomadi ribelli. Ci proteggevano angeli,
dakini e quegli eroi che prima di noi avevano esplorato la “via”. Sulla strada dell’India ho
incontrato baba indù, sufi di Allah e sciamani che ci accompagnavano entusiasti nei loro eden:
templi, tombe di santi e altri piccoli paradisi. Ogni tanto dormivo sotto le stelle. Quei nostri
maestri di strada amavano la libertà e ci insegnavano a camminare e a “danzare nel mondo” per
sciogliere ogni legame. Tra di noi, i più “deboli”, parcheggiavano ogni tanto in un ashram dove
c’era sempre una zuppa calda condita con un po’ di nirvana, ma i più “forti” camminavano sempre.
Ogni tanto si giocava a perdersi lungo il sentiero maestro per stare soli a godere il silenzio
inebriante dell’Himalaya. “Dove andavamo? Sempre a casa!”.
Così un bel giorno, senza cercarli, ho trovato i “miei” Jhakri sciamani. In Nepal buddhismo e
induismo si mescolano alla “religione” più diffusa e segreta: il “jhakrismo” – la “via” degli
sciamani. Gli studiosi che gli hanno contati ne hanno trovati ottocentomila – uno ogni venti
abitanti – i medici del Nepal sono solo un migliaio. Ma i jhakri sono invisibili: con la furbizia
dei maestri taoisti si nascondono tra la gente qualunque. Sono dei ricercatori “free lance” sempre
in odor d’eresia che ho subito amato per il loro “free style” devozionale. Per avvicinarsi agli dei
non si rinchiudono in monasteri, danzano e suonano il tamburo nei loro villaggi, scalano monti sacri
e esplorano la natura selvaggia convinti di avvicinarsi a forze segrete. Nei loro visi scavati c’é
la bellezza tragica delle montagne dell’Himalaya.
“Jhaknu” nella lingua nepali vuol dire sbirciare, spiare. “Jhakro” é la capigliatura lunga e
spettinata ma anche il cespuglio incolto. Jhakri – lo sciamano – é allora un uomo selvaggio, curioso
e potente. In Nepal è il medico dell’anima umana, il ponte tra vivi e morti, tra uomini e dei. Con
il battito del suo tamburo “jhangro”, il canto ipnotico e ripetitivo “jagar” e il ballo e i salti
vola dritto in Cielo. Il corpo è scosso da tremori e convulsioni – kamnu – e la coscienza “esplosa”
fa ritorno alla sua natura celeste. Con il trance estatico il jhakri si trasforma in uno
“psicopompo” – che guida l’anima verso il cielo e il regno dei morti – e in un “disincarnato” che
può realizzare quaggiù e tutte le volte che vuole l’uscita dal corpo.
Questa “piccola morte” ci riporta alla nostra vera patria: un oceano scintillante e amniotico, un
nulla caldo e magnetico chiamato nirvana. La preghiera dei Jhakri é un godimento di sé e del mondo:
é un “orgasmo cosmico”. Con la danza sacra il corpo dello sciamano, giovane o vecchio che sia,
acquista movimenti agili e polimorfi. Gira come una trottola mimando la rotazione dei pianeti
attorno al sole, il volo degli uccelli, le contorsioni degli amanti. Ogni tanto si rannicchia come
un feto per riposarsi un po’ ma poi “riprende il volo” allargando le braccia come una nuvola spinta
dal vento.
Ci sono due modi per diventare jhakri. Il primo con una “chiamata” da parte di dei e antenati, con
sogni e dolorose malattie iniziatiche, il secondo invece per trasmissione ereditaria: Ma chi riceve
in dono la “professione sciamanica” é considerato niente di più che un semplice medico. Nel Nepal
d’oggi devastato dalla corruzione politica, dai disastri ecologici e dal turismo selvaggio le
vocazioni sciamaniche sono in crisi. Ma anche lì sta nascendo una terza e nuova via di iniziazione.
Quella di chi vuol diventare sciamano per sua volontà e paga una guida alla via dei poteri
sciamanici. Tra questi ci sono sono i figli della Psichedelia e della New Age, risorti dalle ceneri
degli Hippie anni ’60, che si sentono orfani di quel corpo ecologico e “sciamanico” che l’occidente
così materiale non può più restituirci. Nei villaggi di montagna più sperduti si racconta anche la
favola del “sacro rapimento”: bimbi predestinati che si perdono nei boschi sono accolti e istruiti
dai “Ban Jhakri” – elfi, maghi e orchi – che li restituiscono a papà e mamma dopo un anno di “
scuola di selvaggità e sciamanesimo”.
La gente dell’Himalaya sa che le foreste sono abitate da uomini selvaggi. Ci sono le tribù aborigene
dei Kusunda e dei Chepang, scoperte dagli antropologi pochi anni fa, ma anche “Ritte Jhakri”, neri e
pelosi che vivono con i “Suna Jhakri” dal pelo fulvo e dorato. I “Jala Jhakri”, acquanauti che
vivono nelle paludi. Consiglia di evitare i “Latho Jhakri”, muti e pazzi, mentre é un dono divino
l’incontro con i “Bon Jahkri”, nani vegetariani, verdi e caritatevoli, che ci insegneranno le arti
sciamaniche.
Di notte, vicino al fuoco e ai monti più alti della terra, ho incontrato più volte chi mi giurava
d’esser stato educato da queste creature dei boschi e come prova mi mostrava i regali ricevuti:
pietre sonanti, cristalli e strane reliquie antropomorfe fatte di pelo e radici intrecciate.
Per sopravvivere allo sterminio e a una caccia a streghe e stregoni che mi ricorda quella della
nostra inquisizione molti sciamani si sono dovuti mascherare con liturgie indù e buddiste. Per
incontrare i jhakri più “puri” del Nepal ho trascinato Santos, la mia guida tamang, sui monti
Mahabharata che confinano con il Terai, nella giungla tropicale del Terai assieme a tigri e a
branchi di rinoceronti unicorno vivono gli ultimi “Kusunda”. Aborigeni, nudi e irraggiungibili,
odiano l’agricoltura e si dedicano a caccia, pesca e raccolta di “kandamuls” – frutta, foglie e
radici selvatiche. Su giardini pensili a strapiombo vivono gli ultimi “Chepang” che ho deciso di
visitare. Usciti poco anni da dalla giungla oggi si autoproclamano “Chyobang”, il popolo della
montagna. Kusunda e Chepang sono le due ultime “broken tribes” – tribù disgregate – del Nepal.
Dopo aver perso per strada cuoco e portatore con tutte le nostre provviste arriviamo finalmente al
villaggio chepang che cercavo. Ci accoglie un “pande”, uno sciamano vestito solo con un perizoma. Il
corpo del vecchio, smagrito dalla miseria, é in mezzo al suo harem di mogli, figli e nipoti. Ha
l’aria altera di un re che sa d’essere un prezioso tesoro vivente. Le donne vestono stracci e girano
a seni nudi. I bimbi fumano tabacco con le pipe dei nonni e bevono “jand” e “raksi”, alcool di mais.
Vivono assieme a caprette, maiali e polli in un’allegra e non igenica promiscuità.
C’é molta povertà nel villaggio ma devo accettare la loro ospitalità, il nostro riso prezioso é
sparito col cuoco in quelle giungle. Per tre giorni assaggio il piatto locale: un po’ di “tarkari”,
verdura bollita e una tazza di “raksi” , “vino” di miglio e di mais. Ma prima di ripartire, in una
notte di luna piena, il pande ci regala una “puja” propiziatoria. Batte il “rin”, un tamburo
speciale a una sola faccia che é ornato di sonagli zoomorfi. Ad ogni respiro e ad ogni tremore fa
eco un suono ritmato dai tintinnii, dal “rombo” del tamburo e dai mantra devozionali. Potente
medicina sonora.
Il mese di “saun”, luglio agosto, è infausto: le valli del Nepal sono martoriate da diluvi
monsonici e da frane. Anche gli dei si spaventano nascondendosi nelle viscere della terra e l’uomo
rimane solo e indifeso. Ma nella magica notte della luna piena di agosto, il Janai Purnima, gli dei
ritornano nei “dharma sala”, i loro troni in cima ai nevai e tutto ritorna come prima. Per
ringraziarli una lunga processione di fedeli, con gli sciamani in testa, salgono in montagna per
raggiungere i laghi sacri di Gosaikunda. I Jhakri che partecipano al “jatra”, il sacro
pellegrinaggio, sono vestiti a festa. In testa hanno un turbante fatto con sete intrecciate rosse e
bianche simbolo della armonica unione del maschile e del femminile. In mano hanno armi
scacciademoni: i “mala”, lunghi rosari fatti con semi di “rudrasksha” (Elaocarpus ganitrus), i
“furpa”, pugnali rituali di legno, il “trisuli”, tridente di Shiva e l’immancabile “jangro”, il
tamburo sciamanico. Indossano lunghe tuniche bianche e i più “forti”, che sono i più vecchi, salgono
scalzi. Le fanciulle più belle sono invece agghindate come “dakini”, fate e angeli dai seni
“profumati di fiori” che i tibetani raffigurano nude e deliranti e che simbolizzano la scoperta
della verità rivelata dal Buddha.
Dopo una notte di danze e sbornie passata a Sing Gompa con i Jhakri che fanno i loro miracoli salgo
anch’io, di primo mattino, verso i 108 sacri laghi a quattromila metri d’altezza. Arrivati
finalmente in cima i pellegrini si spogliano e si tuffano nelle acque gelide del lago di Gosaikunda,
dimora di Shiva. Il dio delle vette é venerato come “Pasupati”: protettore dell’Himalaya, degli
asceti e degli animali selvaggi. E’ androgino e ambiguo: è “fausto e propizio” ma ha un alter ego –
Rudra – terribile e distruttivo.
Nelle estasi Shiva appare ai suoi devoti come uno yogi nudo, metà donna e metà uomo, con una lunga
criniera di capelli intrecciati a velenosi cobra. Ha due braccia che afferrano una gazzella e
un’ascia paurosa e altre due con le mani impegnate in mudra di pace e di offerta. Il suo fallo rosso
é venerato a Gosaikunda come simbolo della potenza generativa. E’ un lingam, una pietra che spunta
dall’acqua simbolo della yoni, la “vulva” della creazione divina. Quando lingam e yoni si incontrano
nasce il “brahman”: si crea la vita e finisce ogni dualismo.
Qualche sciamano sale in montagna in digiuno. Altri sfruttano l’alta quota e lo stress
dell’acclimatamento per “sballare” e avere sogni e visioni. Il sentiero che ci conduce a Gosaikunda
nasconde tesori: “rocce madri” che i devoti fecondano con la preghiera e che penetrano come
spermatozii. Strisciano attraverso crepe vagina fin dentro il “ventre della montagna”. I Jahkri
venerano altre “pietre insanguinate” come quelle che raffigurano il sesso di Kali, dispotica dea del
tempo e della distruzione. Kali é una strega affascinante ornata di teschi. Coi capelli corvini, gli
occhi scintillanti, i seni e la lingua penzolanti.
In un tiepido inverno nepalese mi trovavo nella valle di Khumbu, ai piedi del Chomlungna, l’Everest,
a “caccia” di “lawa”, gli ultimi sciamani sherpa. Un giorno, con la speranza di curare la mia guida
Kagi Sherpa tormentata da incubi e tremori ho fatto visita a Nimba Bo San. Il lawa dopo aver suonato
il tamburo, danzato e offerto incensi ai guru e agli dei della montagna mi conferma una diagnosi
infausta: Kagi Sherpa dovrà far ritorno a Katmandù. Perdo così in un sol colpo un amico, il mio
traduttore e la mia guida. Alla fine del consulto chiaccheriamo un po’: anche lui da bambino é stato
rapito da un Bo Jhakri. Mi vuol convincere che tra quei monti si nascondono gli ultimi spiriti
guardiani dell’Himalaya – i “Lu” – scacciati dalle foreste disboscate. Nelle valli sherpa ogni
inverno si riversa un esercito di trekkisti e di alpinisti che deposita mucchi di dollari e
spazzatura. Nimba con un espressione stanca e sconsolata mi dice: ” quando la foresta che vedi sarà
distrutta, fuggiranno gli animali e i nostri Bon Jhakri. Allora la montagna ferita morirà e anche
noi lawa spariremo”.
Il villaggio di Godawari, a pochi chilometri da Katmandù, é famoso per le orchidee del suo orto
botanico e per un wiskhy locale spaccafegato. A Godawari ritorno ogni volta che volo in Nepal anche
per ritrovare il mio amico Ritte Kami, bravo fabbro e famoso sciamano. I “kami” appartengono alla
casta discriminata dei fabbri assieme a “dami”, i sarti, e “sudra”, gli intoccabili. Ritte Kami é
stato il primo jhakri ad avere un allievo occidentale: il padre gesuita Casper Miller autore del
saggio “Faith Healers in the Himalayas”. Padre Miller ha il corpo asciutto e lo sguardo “dritto” di
uno sciamano. Quando lo incontro mi dice che Ritte Kami gli ha insegnato ad usare la bibbia come un
tamburo e il canto gregoriano come un magico “mantra”, a scrutare la profondità dell’anima umana e a
vedere le auree energetiche che circondano il corpo umano.
Il vecchio sciamano forgia ancor oggi zappe e “kukuri”, i pugnali dalla lama ricurva dei leggendari
Gurka. Ci vuole un’intera giornata di lavoro per trasformare un pezzo di rotaia d’acciaio della
ferrovia delle Indie in quell’arma affilata e brillante. Ritte Kami mi mostra orgogliosamente il suo
jangri, il tamburo cilindrico a doppia membrana fatto di pelle di “goral”, uno stambecco himalayano.
Sul lato maschio e solare del tamburo é dipinto il tridente di Shiva e su quello femminile un quarto
di luna scintillante.
Per lo sciamano il tamburo é uno strumento da “biofeedback spirituale”: il suo battito stimola e
guida il ritmo del cuore, la respirazione e le nostre emozioni per condurci al trance e al
“viaggio”. Sul manico sono incisi due serpenti intrecciati ed eretti che simboleggiano la Kundalini,
energia spirituale che ognuno di noi ha depositata nel suo fondo schiena. Quando é risvegliata sale
lungo la colonna dorsale e i sette chakra sviluppando stati di benessere e di illuminazione. Ritte
Kami é un guaritore che invita alla sua puja Bir Masani, un demone terrifico causa di malattie. Bir
Masani é attirato nella trappola di un mandala ragnatela, fatto di disegni colorati, fiori, e altre
offerte di riso, monete e lumini.
Il mandala é un disegno che rappresenta l’ordine del mondo. Uno psicogramma che serve a yogi e a
lama esperti a comprendere l’intima struttura e il mistero dell’anima. Ma é anche un labirinto
pericoloso per sciocchi e demoni malintenzionati che si perdono e si “indeboliscono” in mezzo a una
babele di segni magici e misteriosi. Nel mandala Bir Masani é sedotto e pacificato con i doni, poi é
ubriacato col sangue di un pollo sacrificale perché mai più possa ritrovare la strada per Godawari.
Per incontrare la jhakrini Bhudi Lama – una sciamana tamang – mi avventuro invece con l’amico Santos
in un dedalo di baracche, fabbrichette di tappeti tibetani e “chiai shops” che assediano e soffocano
la stupenda stupa di Bodnath. Bhudi Lama é ha curato la famiglia reale del Nepal ed é diventata
leggendaria. Mi accoglie con simpatia e mi lascia appiccicarmi con la mia Sony per spiare i suoi
segreti. Davanti alla sciamana ogni giorno sfilano donne depresse, spose sterili, madri infelici con
bimbi malati, pazze e vittime di malocchi e fatture.
Si apre un velo sull’invisibile sofferenza della donna nepalese, obbligata a ubbidire sempre, a
sposarsi bambina, ad accettare la poligamia e a lavorare sempre. Schiava della casa, ancor oggi
subisce le discriminazioni di una società misogena e patriarcale – la vita domestica é chiamata
ancor oggi “homa”, cioè sacrificio. Bhudi Lama va in trance con un mantra ipnotico e poi sfiora con
una lama schiene curve e dolenti, ventri gonfi, ferite infette e seni vuoti che non vogliono dare
più latte. E nei casi più gravi “cura” donne stregate che si divincolano a terra come serpi con
potenti ceffoni.
Bhudi Lama ha sempre dimostrato un gran coraggio: é diventata sciamana a vent’anni dopo una
guarigione miracolosa e dopo una sfida di tre lunghe notti trascorse alle pire funerarie. Nei
crematori si addensano le ombre vendicative dei “sijo” e dei “massans”, anime inquiete di suicidi e
morti ammazzati. La giovane si offre in pasto a quei demoni protetta dai suoi guru e da schiere di
dakini. La lotta é tremenda: seduta sulle pire, a gambe incrociate, Bhudi Lama é assalita da paure
ancestrali, dall’angoscia della morte, da odori nauseabondi e da energie velenose che la scuotono da
testa a piedi. La mente vacilla al limite della follia. Ma i demoni rimbalzano sulla sua anima
protetta e Bhudi vince la sua battaglia diventando “lama”, “jhakrini” e sciamana.
Questa storia mi ricorda la sfida dei tibetani – il chod – che si isolano nei cimiteri per offrirsi
in offerta agli spiriti e vedere la morte e degli sciamani yakuti che si ” lasciano morire” tre
giorni di fila nelle loro yurte, senza mangiare e bere. O le visioni iniziatiche degli sciamani
tungusi e buriati dove si vedono fatti a pezzi, riempiti di cristalli e poi ricuciti, con fate
splendide che cantano: ” il nostro eroe diventerà un grande sciamano”
I Jhakri ci mostrano che la vera forza non é nei muscoli ma in una condizione di purezza e fragilità
emotiva che ci trasforma in “occhi di Dio” che sanno riconoscere i veleni del mondo.
Qualche volta follia e poteri sciamanici si mischiano come nella vita drammatica della sciamana
tibetana Sakyapa Dolkar di Bodnath. Mi racconta che da giovane, pazza e schizofrenica, si era
affidata alle cure del Dalai Lama e del suo esorcista Tsetrul Rinpoche. Questi medici dell’anima
avevano intuito il potenziale spirituale nascosto in quel disagio e con esorcismi avevano
trasformato la sua pazzia in una forza tremenda al servizio dei Budda. Sakyapa Dolkar diventa così
una potente sciamana protetta da Dorje Yudonma, suo guru che incarna l’energia del cosmo. Mi invita
a cena e dopo un bel piatto di ravioloni imbottiti di verdure vuole che assisti a una puja di
guarigione “sponsorizzata” da un gruppo di malati occidentali e di Sick benestanti. I Sick sono
indiani fedeli al credo monoteista di guru Nanak famosi per la capigliatura intonsa “kesh” raccolta
sotto il turbante.
Col viso nascosto da una seta rossa e col capo incoronato da una tiara la jhakrini entra in trance:
lamenti, contorsioni animalesche, risa isteriche stimolate da suo “damaru”, un tamburello tibetano.
Poi accende il fuoco: sposta le braci ardenti a mani nude, ci sputa dentro raksi puro e poi inizia
la “cura”. I malati dopo una veloce diagnosi, uno per uno, sono massaggiati, picchiati e ciucciati
nelle parti del corpo malate. La sciamana dimostra l’abiltà di un prestigiatore. Sputa in una
bacinella ogni tipo di sozzura: piccoli calcoli di pietra, peli, piccoli tumori, sangue marcio.
Strilla, pianti strazianti e canti soavi di ringraziamento accompagnano queste suzioni.
Per il suicidio di un sarto vengo richiamato a Godawari. L’anima dell’ impiccato vaga senza pace
sopra il villaggio perseguitando i due figli: uno trema come una foglia e l’altro é impazzito e
farfuglia parole insensate. In Nepal non c’é disgrazia peggiore che il suicidio. Ognuno si sente
colpevole, ha rimorsi, qualcosa da farsi perdonare e teme tremenda vendetta dai ” morti che
camminano “, i morti suicidi.
Con gran sacrificio si assoldano molti Jhakri: i figli sono tartassati di cure e dopo ore e ore di
tamburo esplodono in trance violenti. Tra la sorpresa di tutti il più giovane, con il tono di voce
del morto, racconta i particolari di quell’ultima notte. I vecchi annotano ogni parola e decidono di
ripercorrere il sentiero che conduce al luogo del suicidio. Quà e là ritrovano, su indicazione del
figlio, le cicche fumate dal morto, la corda in più che non era stata usata ed era abbandonata nel
bosco e i suoi sandali di gomma.
Nella notte della “guarigione di gruppo” si accende un grande falo’. I Jhakri nutrono l’anima
errante spargendo sulle braci ardenti burro, latte e il sangue dei polli sacrificati. Tutto il
villaggio é intorno al fuoco. I tamburi battono all’unisono, gli sciamani e i figli del sarto si
buttano tra le ceneri ardenti. E’ un bagno di fuoco e di cenere liberatorio, un’orgia di odori di
incenso e sangue bruciato, in mezzo a boati di grida. I Jhakri dopo un po sono d’accordo: l’anima
del suicida é soddisfatta da quell’offerta. E’ ritornata in cielo e gli abitanti di Godawari
potranno dormire sonni tranquilli.
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