E L’EVOLUZIONE DELLA COSCIENZA (PARTE SESTA)
A cura di Andrea Boni.
La Coscienza secondo il Vedanta(1)
Negli ultimi decenni lo studio della coscienza è divenuto un campo di ricerca molto importante in
ambito scientifico e filosofico. Assistiamo infatti ad un crescente interesse da parte di fisici
quantistici, neuropsicologi, ricercatori delle scienze cognitive, filosofi e spiritualisti. William
James, Von Neumann, Eugene Wigner, Erwin Schrödinger e David Bohm, sono alcuni dei pionieri nel
campo dello studio della coscienza. Gli studiosi della fisica quantistica hanno evidenziato il ruolo
fondamentale della coscienza nella manifestazione della realtà del mondo fenomenico attraverso il
collasso della forma d’onda che regola il movimento delle particelle elementari, nella fattispecie
l’elettrone. Infatti il fenomeno della coscienza è stato preso in considerazione come determinante
nella manifestazione della realtà sensibile solo a seguito dell’avvento dei primi esperimenti di
Fisica Quantistica, e comunque qui in Occidente gli studi sulla coscienza sono in ogni caso
assolutamente recenti.
Lo studio della fisica delle particelle è stato il presupposto per intuire il ruolo centrale della
coscienza nella manifestazione della realtà sensibile.
Già alla fine dellOttocento, a livello microscopico si è visto che la materia è composta di atomi,
strutture base che la compongono. Ciò è un fatto ben noto nella Cultura del Vedanta e del
Vaisheshika, in cui è spiegata con grande precisione la struttura atomistica della materia. In
seguito si è scoperto che l’atomo è composto di particelle elementari protoni, elettroni e
neutroni, in cui gli elettroni si muovono attorno ad un nucleo composto da neutroni e protoni. In
particolare si è visto che una particella, ad esempio un elettrone, in generale ha un comportamento
anomalo: esso può comportarsi sia come onda di energia, sia come un elemento corpuscolare. Si deve a
Erwin Rudolf Josef Alexander Schrödinger (1887 1961) la definizione di una funzione d’onda, e di
un’equazione che porta il suo nome, che modella matematicamente la particella-elettrone espressa
come onda e grazie alla quale è possibile rappresentare in termini probabilistici la sua posizione
all’interno di un atomo. Più o meno nello stesso periodo in cui Schrödinger ha definito l’equazione
della funzione d’onda, Werner Karl Heisenberg (1901 – 1976) ha postulato il suo principio di
indeterminazione, secondo cui è esplicitata l’impossibilità di conoscere con esattezza la realtà
attraverso i sensi. Infatti, dalla definizione dell’elettrone in quanto onda di probabilità,
Heisenberg ha osservato che non è possibile definire simultaneamente la posizione e la velocità
dell’elettrone; nota una, rimane indefinita l’altra. Si è inoltre osservato che la particella, oltre
alle caratteristiche di onda, poteva assumere, sotto altre condizioni, delle connotazioni di
corpuscolo vero e proprio, dotato di massa, e di tutti gli attributi connessi. Ciò che fa la
differenza tra una manifestazione della particella come onda ed una come corpuscolo, è la presenza
di un osservatore, e quindi della coscienza. In assenza di un osservatore che considera il suo
movimento, il suo comportamento, questa entità di energia si comporta come unonda, se invece cè un
osservatore che misura l’oggetto, essa si manifesta come una massa, come una particella, ovvero
avviene il collasso della funzione d’onda.
Ciò è qualcosa che ha sconvolto completamente la comunità degli scienziati per tutte le implicazioni
che possono derivare non soltanto a livello scientifico, che sono pure importanti, ma anche e
soprattutto a livello filosofico e sociale, poiché questo fenomeno ha una grossa influenza circa
l’interpretazione della realtà, in quanto i risultati degli esperimenti affermano che la
manifestazione al livello grossolano della realtà dipende essenzialmente da un osservatore. La
realtà è formata da un insieme di possibilità, e quella che si manifesta è una tra tante possibili,
definita per il sovrapporsi della coscienza.
E’ comunque opinione abbastanza condivisa che la meccanica quantistica, con tutti i suoi limiti
matematici e terminologici, può fornire delle indicazioni circa la presenza della coscienza, ma non
fornisce una prova assoluta ne tanto meno fornisce una descrizione completa del fenomeno
ricordiamo infatti che quello quantistico rimane comunque un modello di rappresentazione di un certo
fenomeno, e come tale non ha una validità assoluta. Max Planck affermava: E’ un fatto che esiste un
punto in cui le teorie scientifiche e quindi qualsiasi metodo empirico, è inapplicabile, non solo su
basi sperimentali, ma anche teoriche, e rimarrà sempre inapplicabile. Questo è il punto in cui si
entra nella sfera della consapevolezza individuale.
Secondo il Vedanta la coscienza è una facoltà di ciascun essere vivente, un suo attributo
spirituale. Esistono due categorie di coscienza: quella universale e quella individuale. Tale
attributo è quindi oltre il piano materiale, non è un prodotto della chimica cerebrale, che anzi ne
costituisce un effetto. La filosofia Samkhya così come descritta nel terzo Canto dello
Shrimadbhagavatam, Capitolo 26, spiega che il jiva è caratterizzato dalla presenza di coscienza
(cit). Essa è la sorgente della conoscenza e dell’esperienza sperimentata dell’essere nella sua
globalità. Il Vedanta spiega che la materia è il campo (kshetra) dell’esperienza, ed è assolutamente
inerte, priva di coscienza. Sussiste tuttavia una interazione tra il campo ed il conoscitore del
campo (kshetrajna), anche attraverso la coscienza universale, di cui ogni particella individuale ne
è parte.
Circa quattro secoli fa, il famoso filosofo francese Rene Descartes disse: Penso, dunque sono. Da
un punto di vista del Vedanta l’espressione Io sono è l’esperienza cosciente ed è inerente le
proprietà trascendenti del sé. Millenni prima di Descartes, i saggi della tradizione Vedica
realizzarono lo stesso principio in forma più avanzata, inteso nella forma aham brahmasmi,
intendendo con questo Io sono Brahman, Io sono il sé spirituale, il sé cosciente. Questa è la
coscienza, espressa in sanskrito attraverso la parola cetana. L’atto di pensare di un essere vivente
è l’effetto della coscienza ed appartiene alla vita.
Diversi scienziati già all’inizio del ventesimo secolo hanno evidenziato l’impossibilità di definire
la coscienza in termini materiali. Niels Bohr scriveva: Dobbiamo ammettere che non esiste nessuna
teoria in fisica, chimica o in qualsiasi ambito delle scienze positive che possa in qualche modo
spiegare il fenomeno coscienza. Possiamo altresì affermare che esiste questo tipo di attributo
poiché ciascuno di noi lo possiede. Quindi la coscienza deve essere parte della natura, o più
generalmente della realtà, il che significa che al di là delle leggi della fisica classica o della
chimica, come postulato peraltro dal paradigma quantistico, dobbiamo postulare l’esistenza di leggi
di diversa natura [che trascendono il piano fenomenico]1. In modo simile il noto scienzato Inglese
Michael Polanyi argomentava: … una volta che è stato riconosciuto che la vita trascende le leggi
della fisica e della chimica, non c’è ragione di sorprendersi per il fatto ovvio che la coscienza è
un principio che trascende non solo le leggi della fisica e della chimica ma anche i principi
meccanicistici degli esseri viventi(2).
Il Vedanta afferma che la coscienza è un principio che trascende il piano materiale, oltre la mente
e l’intelligenza, e fornisce una precisa gerarchia, come confermato in Bhagavad Gita III.42:
Indriyani parany ahur
Indriyebhyah param manaha
Manasas tu para buddhir
Yo buddheh paratas tu saha
I sensi attivi sono superiori alla materia inerte, ma superiore ai sensi è la mente, e superiore
alla mente è l’intelligenza. Ma ancora più elevata dell’intelligenza è il sé.
Possiamo quindi identificare la seguente gerarchia:
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Il Vedanta spiega lo stesso principio attraverso lo schema degli involucri (pancakosha), ben
spiegato all’interno del corpus letterario delle Upanishad.
(1) T.D. Singh and R. L. Thompson, back cover, Consciousness The Missing Link.
(2) M. Polanyi, Life’s irreducible structure, Science, 160, 1968, pp. 1308-1312.
Questo articolo è stato ispirato dalla lettura di un articolo di Bhaktisvarupa Damodara Goswami
apparso sulla rivista Savijnanam pubblicato a cura del Bhaktivedanta Institute, da cui sono state
tratte alcune citazioni.
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