Sentire bene tiene la mente in forma

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Sentire bene tiene la mente in forma

Sempre più dati indicano una relazione stretta fra udito ed efficienza mentale negli anziani

di Mario Pappagallo

08 ottobre 2013

Oltre 7 milioni di italiani e 590 milioni di persone nel mondo convivono con un deficit dell’udito e
– secondo nuovi studi presentati in questi giorni a Milano – vanno incontro a un rischio maggiore di
sviluppare forme di demenza. È il “paradosso della longevità”: il sentire sempre di meno (ipoacusia)
e la demenza si moltiplicheranno nei prossimi 30 anni e nel 2050 rischieremo di arrivare tutti a 100
anni, ma senza “accorgercene” per il forte legame che esiste tra udito e cervello, tra sordità e
decadimento cognitivo. Per ogni peggioramento dell’udito di 10 decibel si registra una crescita del
rischio di demenza di circa 3 volte. Non è poco. Gli esperti della Consensus Paper “Sentire bene per
allenare la mente”, promosso da Amplifon, hanno sintetizzato, in un dibattito condiviso tra vari
specialisti, i dati di recenti studi. Avvertendo: il decadimento cognitivo può aumentare fino a 5
volte nei casi più gravi di sordità.

DOPPIA RELAZIONE – La demenza colpisce oggi 36 milioni di persone nel mondo e in un caso su tre
sembra essere associata ad ipoacusia. Come anche il decadimento cognitivo sembra poter essere
responsabile di una progressiva perdita uditiva. La ragione resta sconosciuta. Sono state avanzate
alcune ipotesi. La più affascinante dal punto di vista della ricerca scientifica (perché può portare
a interessanti scoperte) è quella che collega udito e cervello: gli stessi meccanismi delle malattie
neurodegenerative, quali quelli della malattia di Alzheimer, potrebbero essere alla base di
alterazioni centrali del sistema uditivo. Un’altra ipotesi, altrettanto suggestiva, sostiene che
l’ipoacusia comporti un maggiore sfruttamento delle risorse cognitive per decodificare i suoni in
informazioni utili, rendendo così la persona più vulnerabile alla demenza. Infine, altri studiosi si
soffermano sul rischio di isolamento sociale, che rappresenta uno dei maggiori fattori di rischio
per l’insorgere della demenza ed è strettamente associato all’ipoacusia, in quanto il deficit
uditivo comporta una diminuzione del desiderio di uscire e di farsi coinvolgere in conversazioni. Un
isolamento capace di “spegnere” la vitalità di mente e cervello.

«Oggi sappiamo che tra ipoacusia e demenza esiste una relazione bidirezionale – spiega Alessandro
Martini, neuroscienziato e otorino dell’università di Padova – e che un grave deficit uditivo è in
grado di aumentare di ben 5 volte, in maniera indipendente rispetto ad altri fattori, il rischio di
sviluppare demenza. Dobbiamo quindi intervenire tempestivamente sul danno uditivo, con opportuni
test audiometrici e i giusti apparecchi acustici, in modo da contrastare il più possibile il
decadimento della funzione uditiva. Rallentare anche di un solo anno l’evoluzione del quadro
clinico, porterebbe a una riduzione del 10% del tasso di prevalenza della demenza nella popolazione
generale, con un notevole risparmio in termini di risorse umane ed economiche». Nei prossimi 30 anni
la percentuale di anziani raddoppierà e nel 2050 gli ultrasessantenni saranno quasi 2 miliardi di
persone (il 21% della popolazione mondiale).

Nello stesso periodo, anche le persone affette da sordità raddoppieranno e supereranno il miliardo,
mentre gli individui con una forma di demenza triplicheranno e saranno ben più di 100 milioni.
«L’allungamento della vita media – commenta Roberto Bernabei, geriatra e neuroscienziato
dell’università Cattolica di Roma,oltre che presidente di Italia Longeva – è un dato di fatto:
chiunque viva oggi continua a guadagnare 3-4 mesi di aspettativa di vita ogni anno che passa ed è
molto probabile che i nuovi nati arrivino a festeggiare i 100 anni. Dobbiamo però prendere atto di
come il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione sia correlato alla demenza e al deficit
dell’udito, un po’ come dopo i 50-60 anni si è tutti o quasi colpiti dalla presbiopia. Ebbene, se
oltre il 50% delle persone con più di 85 anni ha un deficit cognitivo e quasi il 90% ha un disturbo
dell’udito, c’è il rischio paradossale di arrivare tutti a vivere fino a 100 anni di età, ma senza
accorgercene».

RESISTENZA CULTURALE – C’è un problema culturale però in chiave preventiva: agli italiani non
piacciono gli apparecchi acustici. Forse perché “invecchiano”. I dati parlano chiaro: nel nostro
Paese le protesi uditive sono fortemente sotto-utilizzate. L’età media degli italiani che li usano,
ma una cosa è comprarli una cosa è tenerli e in funzione, sia di 74 anni contro una media europea di
60,5 anni. Si chiede Bernabei: «Se un bambino sente poco è automatico suggerire una soluzione
acustica, se un cinquantenne non riesce più a leggere il giornale è automatico che inforchi gli
occhiali. Allora come mai su oltre 7 milioni di italiani con l’udito abbassato solo 700.000 portino
gli apparecchi acustici?». Forse non basta rispondere che il problema è culturale, forse è carente
anche il sistema di comunicazione. E sapere che mettere un apparecchio ai primi segni di decadimento
uditivo può evitare, o allontanare nel tempo, una possibile demenza potrebbe essere uno stimolo
efficace a mutare l’italica diffidenza. Mettere l’apparecchio acustico forse “invecchia”, ma
senz’altro mantiene giovane il cervello.

da corriere.it

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