SentireAscoltare – Capitolo 3 – La Comunità 1

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SentireAscoltare – Capitolo 3 – La Comunità 1

di Edoardo Bridda

3.1 Premessa
L’esperienza umana si consolida a due livelli: il singolo individuo in sé per sé, da una parte, e
ciò che lo trascende dall’altra. Nei primi due capitoli l’enfasi è stata riposta nel primo livello:
si è visto, cioè, come il ritmo cardiaco – suono della vita – viene esperito nell’utero ed il modo
innato con cui il neonato percepisce i suoni ambientali (percezione amodale). Ora la nostra analisi
si concentra sul secondo livello, vale a dire, sulle forme extra-individuali che trascendono le
singole vite e le influenzano. In G. Piazzi queste forme sono riconducibili a due: sono la società
consistente e la società evanescente. Alla prima fanno capo tutte le società pre-moderne, mentre
alla seconda riconduciamo sostanzialmente la società contemporanea, che è il frutto di un processo
di penetrazione del capitale nel tessuto comunitario.

Quando si parla di comunità, la musica creata e suonata ha a che fare non con qualcosa di astratto,
inciso su di un supporto magnetico, ma con una condizione dove l’espressione sonora è proprietà
della comunità stessa (nella comunità d’altronde non esiste neppure la proprietà privata come
vedremo). Il singolo non è in sé e per sé, ovvero, non è libero di proporre la sua musica; egli,
cioè, è rigidamente subordinato ad un ritmo musicale che possiede forme e tempi rigidi al livello
emergente del sociale, del collettivo al di là della specifica singolarità vivente. D’altronde è
anche vero che per il singolo non vi è una grande necessità di creare forme proprie di musica,
ovvero, di esprimere il proprio sé in maniera inconfondibile e originale. Da una parte perché il
rito musicale si armonizza perfettamente con il suo corpo e con la sua mente, dall’altra perché
occorre sostanzialmente una filosofia – un paradigma – affinché egli cominci a pensare in termini
individuali (autoimplicativi) e non collettivi. Quando si ha comunità ci sono degli individui,
quando si ha società ci sono persone; quando si ha comunità c’è materia che vive, quando si ha
società c’è la Vita.
Il primo paragrafo inizierà spiegando la condizione attuale della fruizione musicale, mentre il
secondo si concentrerà sul perché la musica era una fatto collettivo. Il terzo analizzerà il
processo che ha portato il suono che noi viviamo a non essere più vissuto in senso comunitario,
mentre il quarto verterà sul perché vi è stata una ricerca della comunità nel contesto del rock.

3.2 Perché il suono è astratto
“A noi è familiare pensare la musica come fenomeno esclusivamente centrato sul suono, mentre nelle
culture di quasi tutte le popolazioni del mondo il sonoro è visto come connesso con i gesti che lo
producono, le voci che lo cantano, i passi che lo danzano, le situazioni rituali a cui esso si
accompagna” [80] .

Oggi è più che mai vero che il suono – di cui la musica stessa è parte – sia diventato qualcosa di
impalpabile e di astratto. Spesso ci troviamo ad ascoltare suoni in musica di cui non abbiamo
nessuna famigliarità, oppure, ci capita di sentire suoni che in natura non esistono perché creati al
computer. Tuttavia per noi occidentali questo dato di fatto non procura grandi angosce (salvo che
non si tratti d’inquinamento acustico!). Andare a comprare un disco, per poi ascoltarlo per conto
nostro nella nostra camera da letto, è quasi una prassi, non sentiamo la mancanza di quel contorno
visivo-gestuale in cui il nostro materiale musicale è stato concepito. Certo, magari sentendo la
registrazione di un concerto di musica classica immaginiamo di essere lì: chiudendo gli occhi
possiamo vedere il direttore d’orchestra che si destreggia con la bacchetta, oppure, osservare noi
che osserviamo il concerto; comunque sia, tutto ciò è frutto di un nostro universo simbolico a cui
noi possiamo apportare tutte le modifiche che vogliamo in quanto siamo persone libere e dotate di
creatività o libere associazioni di pensiero. Allo stesso modo la musica che abbiamo acquistato, può
suscitarci delle emozioni che viviamo sempre noi, in modo soggettivo, come persone singole che,
appunto come tali, possono percepire delle emozioni che altri non percepiscono o percepire
semplicemente emozioni differenti e originali. Se qualcuno ci chiede se una canzone dei Beatles, ad
esempio Yesterday, è triste o allegra ci sembra “naturale” affermare che sia triste e/o nostalgica
anche se, possiamo obiettare, la parola triste non corrisponde perfettamente al “mondo emotivo” che
quella canzone ci suscita. Un’altro esempio. Se ascoltiamo She loves you, sempre dei Beatles, non
c’è dubbio che quella canzone specifica non sia triste in sé per sé, tutt’altro, magari mentre la
ascoltiamo, ci viene istintivo di muovere la testa. A qualcuno questa canzone potrebbe rimandare ad
un brutto ricordo magari amoroso, tuttavia, è una questione sua personale, fa parte della sua
biografia.

Attenzione però, non è una questione assoluta, ma solo un punto di vista particolare, relativo o, al
più, una questione di gruppo, non di società intera. A tal proposito G. H. Mead ci ricorda che ogni
senso della comunità dipende da quello che egli chiama a common social process of experience,
ovvero, a un’esperienza di senso comune scaturita da un processo sociale. Il fatto che noi siamo in
grado di dare un senso alla musica o che una musica abbia senso per noi, è il frutto
dell’appartenenza a una qualche comunità di ascoltatori, dove certe assunzioni di base sono tenute
in comune [81] . Infatti, se chiediamo a un punk cosa ne pensa della questione ci risponderà come
minimo che la musica dei Beatles è semplicemente patetica e, per paradosso, sarebbe d’accordo con
lui anche un esperto di musica classica. Ognuno, con le proprie ragioni e strade diverse, potrebbe
arguire che questa musica è triste in quanto brutta o insignificante, e nella sua mente la
ricollegherà a sentimenti quali noia, disgusto e quant’altro di negativo in modo immediato. Nelle
città moderne, dove rock-fan, critici musicali, appassionati di musica classica si mescolano
assieme, è possibile, e anche probabile secondo P. J. Martin, che molte persone appartengano a più
d’una comunità di ascoltatori, avendo deliberatamente o fortuitamente imparato come parteciparvi. E
questo spiegherebbe, sempre secondo il nostro, anche la ragione per la quale la nostra percezione, i
nostri valori, possono cambiare; generi o stili che disprezziamo di primo acchito finiscono poi per
venire apprezzati in un secondo tempo. Seguendo il ragionamento di Mead, applicato al nostro campo
da Meyers, possiamo aggiungere che è il fatto di poter appartenere ad una comunità con una certa
omogeneità di gusto – o crearne una – che anima i compositori (e gli esecutori) e che li rende in
grado di anticipare quali sono le risposte di quella gente a certe strutture sonore, e in più di
cercare di condizionarne le risposte.

Per Meyers l’attività di composizione comprende un conscio processo di deliberazione, il che
significa che anche quando un artista sembra esprimere e articolare i sentimenti più profondi al
proprio pubblico si rifà ad una comunità. Un’esecuzione, anche molto personale e ostica, va
ricondotta al fatto che sia l’esecutore sia il suo pubblico appartengono a un sistema di assunzioni
e di valori simili. Per dirla con Mead, questi performers, forse senza realizzarlo, are taking the
role of the other, si mettono nei panni dell’altro.
Di fatto le argomentazioni di Meyers, che riprende Mead, sono utili, ma vanno prese con una certa
cautela. L’esempio classico è rappresentato dal difficile approccio riscontrato, da parte di noi
occidentali, nei confronti della musica di un altro popolo, con una cultura completamente diversa
dalla nostra, non armonica in senso occidentale. In questo caso solo con un lungo processo di
socializzazione, e forse neanche con questo, possiamo imparare ad ascoltare la loro musica nel modo
in cui essi la sentono. Tuttavia non occorre andare così lontano per capire questo punto, anche da
noi in occidente, settimanalmente nelle nostre città, si esibiscono artisti – d’avanguardia,
post-rock, psichedelici – che non saremo mai abbastanza preparati ad ascoltare.

In verità, quando si parla di musica, sempre più ci si accorge che non vi sono sentimenti comuni nel
definirla, o immagini a cui ricondurla, anche con la massima obbiettività che ognuno di noi può
provare a ottenere nel proprio ragionamento e coniando termini ad hoc. Pure parlare di musica crea
non pochi problemi oggi! Le argomentazioni di Meyers, a mio avviso, avrebbero potuto essere
pregnanti soltanto fino agli anni settanta (perlomeno in America, per l’Europa, poco più in là),
fino a quando, cioè, potevamo vedere i giovani come generazioni. Infatti, solo fino a quel momento
era possibile demarcare con una certa precisione la musica dei giovani – il rock – e quella degli
adulti – la classica o al più il jazz -, dopodiché, con il punk, la frammentazione degli stili, la
conseguente destrutturazione di una comunità rock, il punto di vista appena analizzato diventa
inapplicabile.
In più, c’è un’altra questione più tecnica. Se tutta la musica, che noi possiamo ascoltare oggi,
fosse basata su di una grammatica secolarizzata, ovvero, seguisse precise regole armoniche, allora
potremmo dire, con una certa precisione, quando una canzone è triste (Yesterday) e quando è allegra
(Se loves you). In questo caso, se ci venisse proposto un brano atonale, reagiremmo probabilmente
con un certo distacco, in quanto, non eravamo preparati ad ascoltarlo. Se poi ci viene insegnato che
vi è solo una grammatica per ottenere La Musica allora, disprezzeremmo facilmente ciò che si
discosta dai nostri canoni. In verità, da quando la musica afroamericana ha penetrato la canzone
popolare, vi è stato un processo di destrutturazione delle strutture armoniche occidentali per cui,
se da una parte si è cercato di assimilarle (il mercato, le industrie discografiche), dall’altra
sempre più musicisti hanno subito il fascino per l’organizzazione del suono secondo regole sempre
più labili a volte re-inventandole di sana pianta in proprio (l’underground, l’avanguardia). Di
fatto il rock ha assimilato stili e culture diversissime tra loro tanto da spaziare sempre più
spesso nella musica d’avanguardia (dissonanza, atonalità, silenzio, rumore, elettronica) e il tutto
sotto il patrocinio dei supporti magnetici – prima – e digitali – poi -, nonché internet e
soprattutto il welfare state. Si può quindi ancora parlare di musica a cuor leggero?

Osserviamo l’evoluzione della musica registrata. Non bisogna infatti dimenticare che la prima
decontestualizzazione e astrazione della musica deriva proprio dall’invenzione del giradischi, senza
del quale la circolazione della musica sarebbe rimasta ferma alla produzione e fruizione locale o a
classi sociali elevate. Registrare un concerto su disco significa sia renderlo disponibile nello
spazio, ad altra gente lontana migliaia di chilometri, ma anche nel tempo, ai figli di quella gente.
Inoltre, la registrazione permette una certa fedeltà all’originale, tanto che è impossibile che nel
suo passaggio da un luogo all’altro venga manipolata, come invece accadeva per i girovaghi che prima
della sua esistenza erano gli unici intermediari musicali tra un popolo e un altro.

A questo dato di fatto ne va aggiunto un altro, non meno importante: il giradischi come poi il
nastro magnetico, il Compact Disk hanno seguito le logiche delle economie di scala per cui, se
inizialmente il loro costo era sostenibile solo da un’elite di facoltosi acquirenti/fruitori, in
seguito, con la produzione in serie, il costo questo bene è sceso fino ad essere disponibile più o
meno per tutti. Questo processo, assieme alla rivoluzione rock – nel quadro del welfare state – ha
distrutto le tradizionali barriere di classe che vedevano una musica colta per pochi e una musica
pop “bassa” per le masse. Già prima del rock vi erano state delle rivoluzioni all’interno della
musica colta, si veda, ad esempio, le scuole atonali, la dodecafonia ecc.. tutte queste
differenziazioni strutturali si riconducevano sempre al patrimonio e al tratto distintivo di una
classe sociale specifica. Se la musica si differenziava, la sua astrazione era arginata da accesi
dibattiti circoscritti a pochi, ovvero, il suo senso era comunque un patrimonio di un gruppo di
persone che si osservava come classe.
Venuta a cadere anche questa barriera, il processo di differenziazione e di destrutturazione delle
strutture grammaticali della musica classica si è sposato perfettamente con tutte quelle tecnologie
che hanno permesso ai musicisti/fruitori una maggior rapidità di circolazione delle idee e dei
contenuti ad un costo via via accessibile.

Di conseguenza, tutta la musica contemporanea è “arrivata” sempre più ai suoi fruitori come persone
singole e, per giunta, con un elevato grado di astrazione e di decontestualizzazione. Pensate a
tutti coloro che amano ascoltare la musica in cuffia. È sempre più difficile pensare ad un orecchio
culturale frutto di variegate comunità di ascoltatori, ed inoltre, ascoltare un disco a casa è
diverso che ascoltare il suo contenuto ad un concerto, mentre ascoltare un qualcosa che non proviene
dalla tua terra/città/contesto sociale è diverso che ascoltare la “propria” musica. Ci si trova
sempre più disorientati nell’interpretare e categorizzare la musica attribuirle, o un senso, o
un’emozione precisa. Come è d’altro canto vero che oggi la musica trova sempre più uno spazio
personale, individuale e a-temporale più che sociale e, diciamo, contestuale (la propria musica è in
verità la mia musica). Prendiamo, ad esempio, un teenager che ha acquistato oggi un disco dei
Beatles, ristampato su CD, ascoltandolo può immaginare di assistere ad un concerto dei fab-four
calandosi nella realtà degli anni sessanta (non quelli reali, ma i suoi immaginari), crearsi un
mondo visivo e sonoro del tutto personale – astratto dalla realtà – può immaginare, ad esempio, il
gruppo nella sua veste di cartone animato, osservando la copertina del CD.

È chiaro che oggi acquistiamo dischi, non soffriamo ad ascoltarli da soli, e possiamo
contestualizzare la musica che ascoltiamo in modo completamente astratto, prescindendo dal reale
contesto in cui la musica è calata (che nel frattempo è sempre meno interessante). La musica da
astratta può divenire concreta – e possedere anche un senso – soltanto nel nostro mondo emozionale
soggettivo. Il problema è, e il futuro della musica giovanile dipende da questo, se questo senso
individuale, che si dà alla musica, possa prescindere completamente dal suo contesto sociale, ossia,
possa intrattenere ed avere i suoi effetti terapeutici su persone singole in sé e per sé.
Infatti come si è visto nella storia del rock – prima parte -, almeno per tutti gli anni ottanta, la
musica era strettamente legata ad una comunità reale, oltreché immaginata, in tutta Europa. In
Italia, fino a non tanto tempo fa (anche se sembra molto), si è visto lo schierarsi dei paninari,
dei dark e dei metallari: tre comunità giovanili appariscenti che si rifacevano allo strascico del
punk inglese, alla reazione yuppie reaganiana americana e alla sottocultura heavy metal, presente
quest’ultima in tutti i due i Paesi dagli anni settanta. Tre aggregazioni giovanili che partendo dai
centri urbani, si diramavano nelle province e riconducevano il loro immaginario a un’insieme di
valori condivisi, costumi e gestualità comuni, producendo quell’asimmetria già vista con i Mod negli
anni sessanta (a parte l’heavy metal che trovava il suo terreno privilegiato in provincia).

Per un dark la musica non poteva esse che dark e, così, l’abbigliamento la passione per i film
dell’orrore, per il gotico etc., lo stesso per il paninaro che ascoltava il Synth-pop, si vestiva
con il monclair e si ustionava il viso con le lampade UVA. Ognuno traeva parte del suo piacere per
la musica di riflesso dal gruppo di appartenenza che dettava anche le regole su cosa fosse buono e
cosa no. In più, la contrapposizione netta tra il paninaro e il dark o tra quest’ultimo e il
metallaro contribuiva generosamente a forgiare l’identità di gruppo per differenza.
Gli anni novanta hanno cancellato questa dialettica tra gruppi contrapposti. Basti pensare che pure
le Spice Girls – gruppo adolescenziale tra i più famosi della decade – non vestono più tutte e
cinque allo stesso modo, ma fanno della specificità la loro carta vincente. Fin dai tempi del Beat
ogni gruppo si presentava con un abbigliamento, se non identico, almeno conforme ad un determinato
clima giovanile. I Beatles, per esempio, all’inizio della carriera, apparivano rigorosamente in
giacca, pantalone a sigaretta, scarpa a punta, camicia bianca e cravatta poi partecipando al clima
psichedelico della tarda Swinging London, con i capelli lunghi, la barba e i pantaloni a zampa di
elefante. Le Spice Girls si vestono in modo da far risaltare cinque stili di vita differenti, uno
orientato allo sport, l’altro all’alta società (Mod al femminile?) ecc.., ovvero, all’interno dello
stesso gruppo sono presenti gusti diversi che presuppongono una certa peculiarità del singolo sul
gruppo. Anche i Beatles nelle interviste, nei loro filmati si presentavano con quattro personalità e
con gusti differenti e riconoscibili, tuttavia, l’originalità di ognuno di loro portava
necessariamente all’unità di gruppo: la stranezza del gruppo era pur sempre una distinzione forte
contro il conformismo degli adulti.

Per le Spice Girls la specificità di ognuna rimanda ad un mondo simbolico specifico fine a se
stesso, già di per sé ricco di spunti consumistici. Il tentativo da parte dei discografici
punterebbe, forse, nell’unire queste ragazze con lo slogan girl power – forza alle ragazze – ma gli
anni dei Beatles e delle generazioni sono passati e quello che risulta sempre più chiaro è che anche
l’ultimo trait d’union tra i giovani, cioè, l’abbigliamento, che li aveva legati in gruppi, non è
più necessario, anzi, una gabbia. Ognuno deve avere il proprio stile a modo suo e quindi ognuno deve
avere, se lo vuole, una musica sua, non più musica dark per i dark o mod per i mod ma la musica per
il soggetto.
Il Capitale rema in senso opposto alla Comunità, anzi la spazza via, in questo modo lascia
l’individuo nudo davanti a se stesso instillandogli però la necessità di trovare un rimedio a questa
condizione di vergogna. La soluzione da lui consigliata sarà sempre blanda e mai definitiva (come
accadeva in passato) perciò, coprirsi meglio, trovare nuovi abiti diventerà una cosa irrinunciabile
per non venir tagliati fuori. In verità quel taglio è stato operato subito, all’inizio della Vita
più precisamente nel momento in cui è stata sconnesso l’intrinseco Sapere che lega la nostra mente
al corpo.

3.3 La società pre-moderna
La musica, prima dell’avvento dell’età moderna, rappresentava un qualcosa di specifico, di
contestuale, di audio-visivo concreto. In passato, cioè, anche “da noi”, occidentali la musica era
imprescindibile dal contesto specifico in cui era radicata. Era un fatto comunitario e non possedeva
copyright. Allora era possibile sapere con certezza cosa significasse una composizione musicale e,
quest’ultima, era un tutt’uno con la danza, con chi la suonava e con il rito complessivo a cui essa
asserviva. È stato così per millenni.
In sostanza, la musica, in tutto il mondo occidentale, ha subito un processo di estraniamento dalle
sue origini contestuali che la vedevano imprescindibilmente legata alle espressioni sociali di un
popolo. E questo sta a significare che la musica esprimeva sempre un qualcosa di specifico legato a
manifestazioni pubbliche o comunque sociali. La musica aveva un senso specifico e funzionava appunto
perché ognuno sentiva dentro di sé a che cosa essa servisse e cosa essa rappresentava. Il suono non
era astrazione ma specificità e quindi era sempre “consonante” all’orecchio musicale degli
ascoltatori. La dissonanza era bandita con punizioni anche severe. La musica non aveva interlocutori
singoli.

…da principio c’è la comunità.. ..da principio e per tanto tempo.. ..allora è successo che la vera
nascita non è mai stata la prima, quella naturale, ma un’altra. Un’altra che viene dopo il parto.
Non l’uscita dal ventre materno, ma l’entrata nell’utero mitopoietico… …l’utero vero, davvero
formativo? Quello della comunità. L’iniziazione è la vera nascita [82] .
Nella letteratura sociologica classica questa fase evolutiva corrisponde alla comunità. Una
teorizzazione di un mondo della vita del passato che era organizzato secondo precise regole e un
saldo fine umano complessivo.
Si può dire sinteticamente e in generale che la comunità rappresenta una realtà sociale fatta di
gruppi fra loro isolati, isolamento caratterizzato dalla sostanziale differenza nei valori
fondamentali di riferimento che fanno da guida sicura per gli individui membri. L’elemento
fondamentale della comunità è la distinzione fra i gruppi, che può essere tipizzata secondo la
distinzione Noi/Loro, riferibile sia all’esterno (comunità/non comunità), sia all’interno
(nobile/plebeo, ecc.): su questo fattore di distinzione si fonda la saldezza del gruppo, l’identità
collettiva, e da ciò consegue necessariamente (“meccanicamente”, dice Durkheim) la robustezza della
costruzione identitaria individuale. Quindi l’esperienza comunitaria si spiega principalmente in
riferimento al mondo dei valori in quanto differenze [83] .

La società pre-moderna, che è qui in sostanza ricondotta alle civiltà contadine, è rapporto
viscerale tra l’uomo e la terra, dove quest’ultima rappresenta non soltanto il sostentamento
alimentare ma anche un modo di essere della comunità. La comunità è una forma che trascende
l’individuale, una coscienza collettiva fondata sulla solidarietà organica, come direbbe Durkheim,
definita dall’assenza degli individui in quanto personalità singole e autonome perché, in essa, la
coscienza collettiva è dominante rispetto alla coscienza individuale, ovvero, la coscienza
collettiva ricopre di sé le coscienze dei singoli individui. Il risultato di questo processo come
osserva P. Stauder, porta ad un individuo (che) vive per la società e la considera il suo vero corpo
per il quale si può e si deve sacrificare ogni cosa anche la propria vita se occorre [84] .
Ma come fa la comunità a trasformare le vite in individui perfettamente inseriti in un contesto
extra-umano? Quale educazione riesce ad arrivare così nel profondo dell’animo umano? La comunità
riesce in questo compito perché
…si struttura attraverso un confronto all’interno della vita umana, fra gruppi umani diversi, le
cui differenze sono il punto di riferimento che consente agli individui di delineare percorsi
biografici specifici. Attraverso lo sviluppo del senso di appartenenza (identificazione), la
comunità attribuisce un senso specifico alla vita dell’uomo, il senso della differenza dagli altri
uomini, da tutti coloro che non appartengono ad essa e contemporaneamente, così facendo, insegna
come si fa ad appartenere a se stessi, ad essere individui [85] .

Dire che la comunità educa i singoli ad essere individui parti di un tutto, vuole dire che essa si
fonda su di un processo interiorizzazione della stessa nell’individuo e il modo in cui lo fa è
chiamato mitopoiesi. Attraverso la mitopoiesi la comunità penetra a fondo nell’individuo.
Questo importante concetto è stato elaborato dall’antropologo Tulio Altan, secondo il quale, i
valori non andrebbero intesi come entità magiche o metafisiche, ma come rappresentazione di qualcosa
di concreto. Con il termine mitopoiesi questo autore ha voluto evidenziare la creazione di un
simbolo datore di valore che si presenta in modo concreto, individuandone anche le fasi specifiche,
in base alle quali, esso penetra l’individuo. Esse sono:
1. Destorificazione, tramite cui si decontestualizza un elemento della realtà concreta, che risulta
così sottratto alla contingenza.
2. La trasfigurazione di questo elemento in un archetipo o immagine esemplare.
3. L’identificazione dell’uomo con questa immagine.
Un comunità pre-moderna è dotata di una solidarietà organica appunto perché in essa gli individui
sono protetti da un nucleo solido di valori sulla cui base è sempre possibile sapere chi sono e da
dove vengono. E questo è tanto più pregnante quanto l’apprendimento di questi valori è in
contrapposizione netta con quelli di un altro gruppo o comunità. La forza deriva dalla differenza in
quanto è il confronto “netto” che rende forte l’insieme dei valori.
L’individuo assume valore in quanto è parte integrante di un gruppo, in quanto condivide con altri
individui gli stessi principi culturali; ma tale appartenenza, per essere veramente funzionale, deve
anche costituire un limite d’accesso per altri individui. Ogni identità dunque si fonda sul
principio di esclusione [86] .

La società pre-moderna, ad esempio, oppone la musica del ceto nobile a quella gretta dei poveri in
modo tale che: il povero non andrà mai a ballare in un castello e, viceversa, un nobile, anche
caduto in miseria, non si abbasserà mai ad ascoltare il folk popolare.
Il processo di mitopoiesi identifica i membri di una comunità in modo specifico per cui la musica è
sacra, fa parte solitamente di un rito di cui fa imprescindibilmente parte integrante. La sua
funzione è chiara a tutti i membri della comunità e il suo senso risiede proprio nell’esecuzione
sociale. Nell’esecuzione la forma e il tempo devono essere rispettate per cui vi è libertà di
espressione solamente nelle forme previste. La musica è rappresentazione sonora specifica di una
determinata comunità e si contrappone in modo netto nei confronti di altre. Ma affermare questo
vuole anche dire che nella comunità, la proprietà anche della musica non è privata. Non è un fatto
dell’economia. Non è ricchezza quantitativa [87] . L’espressione musicale è un fatto collettivo ed è
qualità nel senso che tutti gli individui di una comunità sanno cosa quella musica significhi,
ovvero, hanno interiorizzato quell’insieme di suoni e ci si identificano.
La mitopoiesi è un processo davvero pervasivo, meticoloso, carismatico come sottolinea G. Piazzi,
penetra fino nelle zone più recondite del cervello e da qui dentro il corpo. C’è imprinting, la
materia cerebrale rimane profondamente segnata. Tramite la mitopoiesi avviene l’imprinting cerebrale
e a partire da lì, da questo imprinting, la mente deve mentalizzare il corpo. Che vuol dire che la
natura vivente che è nel corpo venga alterata e resa compatibile – coordinata – con la mente. Per
tutto ciò che questa mente può e deve chiedere. Per questa ragione sempre secondo il sociologo c’è
una decisiva solidarietà tra mente e corpo, nel senso che la mente strumentalizza il corpo e
quest’ultimo è così adeguato alla mente.

Quindi, La comunità viene interiorizzata. E, attraverso questa esperienza di interiorizzazione si
crea solidarietà tra corpo e mente. Ma le cose non si esauriscono qui, approfondendo questo tema, si
aggiunge che quando si realizza, tale solidarietà implica necessariamente il coinvolgimento
formativo di un dato vitale profondo. Specificando che tale Profondo = La sua verità è tutta
interna: e non dipende più dalla relazione con ciò che sta fuori [88]
La comunità innesca da fuori, tramite la mitopoiesi, un valore di senso che non dipende minimamente
da fuori, in quanto è un retaggio arcaico, filogenetico, memoria ancestrale. Un valore, una
ricchezza, una risorsa che provengono da molto lontano.
Esiste probabilmente, nella vita dell’individuo e del suo spirito non solo ciò che egli stesso ha
sperimentato, ma anche ciò che egli ha portato con sé dalla nascita, frammenti di origine
filogenetica, un retaggio arcaico… …nell’intimo vitale di ciascun individuo ci sono tutti i dati
etnici, culturali, cognitivi, affettivi portati fin lì dal suo gruppo ancestrale [89] .
Il retaggio arcaico è, di fatto, nei cromosomi in quanto nel programma genetico del singolo
individuo è condensata l’intera storia della sua appartenenza. Il qualche cosa di profondo è una
memoria, una narrazione collettiva che si è fatta memoria individuale nei cromosomi. Quando la
comunità “funziona” il suo ruolo consisterà nell’attivare nei suoi membri questa memoria che è già
presente come retaggio arcaico nei loro cromosomi. Perciò, una volta attivata, la memoria farà sì
che ogni individuo non dipenderà assolutamente dalla relazione con ciò che sta al di fuori.

Nella comunità per apprezzare al meglio la musica non vi è la necessità di avere una comprensione
critica nei suoi riguardi, il suo apprezzamento è goduto in sé e per sé. Potremmo dire che vi è già
un sentire musicale nella comunità, tuttavia, questo potrebbe essere fuorviante perché, in questa
fase, la musica non è assolutamente libera, tanto che, il singolo membro non la può né contestare né
modificarne, pena l’esclusione dal gruppo o, alla peggio, la morte. Il sentire musicale è un fatto
autoimplicativo totalmente interno alla vita che emergerà solamente con il Capitale. Nella comunità
esiste un sentire musicale solo se intendiamo il senso profondo della sua musica come l’armonia
corpo-mente che questa contribuisce a saldare, e una mitopoiesi che fa sì che il suo ruolo non sia
mai messo in discussione. Il sentire, quello vero della Vita, è attivato da “dentro” mentre nella
comunità vi è la necessità di un’attivazione da “fuori”.
Un esempio, ricavato da quanto è emerso nella storia sociale della musica contemporanea – prima
parte -, può essere utile per chiarire le idee su questo punto. Quando il popolo afroamericano,
ancora schiavo, cantava nei campi le work songs, attraverso il canovaccio del call and response,
rievocava, di fatto, una memoria collettiva; ogni singolo, vale a dire, affondava le sue risorse
ideative nel Sapere della memoria cromosomica. La musica rappresentava per questo popolo l’unico
modo per fare sopravvivere lo spirito della terra africana (l’essere materia della comunità). La
musica è cosa sacra e attraverso di essa la comunità nera attivava, in ogni singolo afroamericano,
il Sapere cromosomico, la solidarietà tra bios e logos, con il risultato che il canto riusciva a far
sopportare meglio la fatica del lavoro.

La musica nera per i neri è sentita perché non vi è bisogno di uno sforzo intellettuale per
comprenderla, non vi sono passaggi che sfuggono, astrazioni o stranezze compositive. D’altro canto,
c’è un modo comunitario, e non individualistico, di fare e percepire la musica che è simultaneo e
contestualizzato in danze e rituali, un tutto audio-visivo. Il ritmo è dentro ogni singolo
afroamericano, poiché quando la sua comunità attiva (da fuori) la sua memoria cromosomica – il
Sapere che c’è in lui – quasi automaticamente un certo modo di relazionarsi alla musica è messo in
atto (da dentro). È il caso del call and response con il suo accompagnamento di “strumenti
corporali”: un canovaccio che proviene da fuori l’individuo – la comunità – ma che si attiva da
dentro – Sapere cromosomico -. In questo senso, la partecipazione è attiva, armonizza il corpo con
la mente.

L’analisi non è ancora completa, e l’esempio della musica nera merita una precisazione. Ogni forma
musicale ha una storia fatta d’adattamenti, variazioni, assimilazioni: gli spirituals e le work
songs sono il risultato di un percorso culturale di un popolo, o meglio di un’etnia, che, di fatto,
non ha sempre organizzato la sua musica in questo preciso modo. Il call and response è un forma
musicale – un distillato – che è, di fatto, il risultato di lotte intestine secolari tra etnie nere
differenti. La musica nera degli schiavi afroamericani nell’ottocento, non si ricollega alla specie
umana nella sua interezza ma distinzioni interne fra tribù nere differenti o gruppi ancestrali tra
loro diversi.
La comunità, attraverso la mitopoiesi, attiva la memoria ancestrale e, facendo ciò, vivifica la
natura vivente dell’individuo, tuttavia, l’ancestrale non riguarda tutta la specie umana nella sua
interezza, bensì un’appartenenza intraspecifica. In altre parole, nei cromosomi sono presenti
principalmente i valori bio-simbolici del gruppo ancestrale d’appartenenza e, i parametri di specie
sono, di fatto, subordinati a questi valori “guida”.

Mito, tradizione, langue, Sapere, lavoro, gioia, sofferenza, fatica ecc. tutto è raccolto in ogni
singola materia che vive. Ma non è un tutto della specie, bensì un tutto che deriva da distinzioni
interne alla specie.
Nei cromosomi dell’individuo c’è un Sapere parziale e non allo stato puro, ovvero c’è un Sapere che
ha già subito le distinzioni interne alla condizione umana, fra un gruppo ancestrale ed un’altro,
quindi un Sapere lacerato, frammentato. In altre parole, l’appartenenza intraspecifica è la
differenza tra una vita ed un’altra, tra un gruppo o tribù ed un’altro, cioè, uno dei cardini su cui
si basa la mitopoiesi. La fase evolutiva in questione, come sottolinea G. Piazzi, non è ancora la
Vita.

È ancora lontana dall’essere in sé e per sé, cioè vita in senso proprio. La materia che vive non può
ancora permettersi il lusso di un progetto vitale del tutto autoimplicativo…
perciò neanche una relazione al suono “sentita” in senso pieno del termine. La materia che vive –
l’individuo non ancora persona – ha ancora bisogno dell’esterno, la Comunità. Tuttavia quest’esterno
attiva un Sapere, ovvero, una memoria del suo gruppo etnico ancestrale, ovvero, un frammento di
memoria filogenetica. Su questo si basa la forza della comunità e quindi anche il significato
qualitativo concreto della musica qui suonata e vissuta.

da www.neuroingegneria.com

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