SentireAscoltare – Introduzione
di Edoardo Bridda
Se la parola ‘musica’ è sacra e riservata agli strumenti del 18° e 19° secolo possiamo sostituirla
con un termine più appropriato: ‘suono organizzato’.
(John Cage, 1937)
Secondo alcuni, studiare il fenomeno musica, nel suo sviluppo storico-geografico, vuole dire
indagare il senso che ogni gruppo le ha dato nel tempo e nello spazio. Si possono così studiare le
composizioni di Mozart mettendole in relazione al periodo storico ed al luogo in cui sono state
concepite, e lo stesso si può fare con il rock, oppure, con il Jazz. Si può guardare dal punto di
vista dello storico che osserva la musica come risultato di una serie di eventi particolari, oppure,
si può semplicemente ascoltare la musica composta e risalire al suo periodo storico, per trovare
qualche corrispondenza, diciamo, musicologica. Ogni cultura, si dirà, ha prodotto la sua musica
giustificandola, e dandole un suo senso, attraverso un qualche espediente di volta in volta
analizzato, e, per arrivare a queste conclusioni, si è argomentato utilizzando svariati riscontri
storici. Si è partiti con il domandarci, per esempio, chi fa la musica? Perché la fa? Perché questa
armonia e non un’altra? E si è proseguito cercando di trovare delle corrispondenze tra: da una parte
il senso della musica – triste, allegra, mistica, nevrotica – e, dall’altra, la composizione del
tessuto sociale da cui essa è scaturita, diciamo antropologicamente.
Seguendo questo filo logico si potrebbe arrivare a concludere che i canti di montagna sono tristi
perché la comunità montana, a cui essi appartengono, risente di un ambiente circostante
particolarmente ostile. E, caso opposto, si arriverebbe ad affermare che i Beach Boys compongono
musica allegra perché sono pienamente integrati nel mite clima balneare di Venice Beach.
Questo, in soldoni, potrebbe essere il punto di vista, di chi vuole osservare questa materia senza
particolari dubbi sul concetto stesso di musica. Infatti, da qualunque angolazione si è voluto
analizzare l’argomento, sempre di musica si è parlato.
Ma è poi così ovvio parlare di musica? Oppure c’è un altro canale per accedere all’esperienza
sonora? Questo è il punto da cui è più opportuno iniziare ad analizzare (paradossalmente magari) il
nostro oggetto di studio.
È indubbio che osservare un qualsiasi fatto sociale, vuole dire relazionarci ad esso da
un’angolazione particolare, quindi relativa; ci vorrebbe un marziano per poter osservare la nostra
realtà con un minimo di obbiettività, ma questo forse non basterebbe
In questa sede si è deciso
affrontare il processo musicale da un punto di vista pre-sociale, cioè, dal punto di vista della
Vita nuda e cruda. Si è preferito domandarci: cos’è la musica per un feto? o per un neonato? Da qui
è risultato lampante che il concetto di musica risultava dubbio, insoddisfacente. Un feto immerso
nel proprio liquido amniotico non ascolta la musica e nemmeno i suoni, ma questo non significa che
lui sia sordo. Egli, si vedrà in seguito, si nutre di suoni particolari, che associa ad uno stato di
tranquillità, e comunque, li sente/vive naturalmente, senza pensarci su.
Da questo punto di vista è meglio domandarci cosa sarà la musica per un bambino, piuttosto che,
disquisire su cosa sia la musica in astratto. La realtà che circonda il feto è fatta di suoni?
Allora la musica può essere considerata una particolare organizzazione del suono riduttiva
dell’universo sonoro, che comunque proviene dall’esterno. Perché riduttiva? Perché è un qualcosa che
circola al di fuori della Vita che si prepara ad entrare nella precoce psiche del neonato, per mezzo
di una rete di relazioni sociali. Perché è un qualcosa che può entrare solamente a patto che per
musica si intenda una riduzione di complessità dell’universo sonoro (relazionabile). Perché è un
qualcosa che pur essendo una riduzione di un qualcos’altro ha la pretesa di essere migliore del
tutto-sonoro esperito nel feto in nome dell’organizzazione sociale. Un qualcuno là fuori lo ha
stabilito prima che il bambino nascesse e ha la pretesa di avere ragione.
Questo qualcuno sui generis è il sociale.
Di fatti – questo è il punto che qui si sostiene con forza -, prima che il bambino imparasse ad
ascoltare la musica egli tranquillamente sentiva, ammirava lo spettacolo dei flussi sonori, delle
ritmicità del cuore, dei timbri, e in special modo, le modulazioni del tono della voce della madre.
Per un neonato, la musica (il suono organizzato) non vuole dire granché: la sua percezione è
globale, e non orientata ad un singolo canale uditivo, i sensi sono tutti attivi sinergicamente;
mentre al di fuori della sua vita emotiva c’è – da sempre – una comunità di orecchi sintonizzati, su
frequenze diverse e non propriamente umane (i generi musicali), che tendono ad essere mantenute
costanti nel tempo per sangue o per classe o per denaro in nome di un ascolto audio-esclusivo. Il
bambino, dal canto suo, tutto ciò non lo riesce a metabolizzabile pacificamente, si pensi che, se
egli potesse, mescolerebbe suoni, rumori, stili musicali con qualsiasi strumento (giocattolo) gli
capiti sotto tiro e ogni volta che riproverebbe a suonare ne verrebbe fuori qualcosa di diverso. Ha
ragione chi dice che la – nostra – musica bisognerebbe avere il tempo di farla noi. Organizzare noi
i suoni in base al nostro ordine. La vita sa come filtrare i suoni a suo unico favore, anche lei fa
le sue selezioni e riduzioni a suo unico vantaggio.
Inutile dire che, dal punto di vista delle orecchie sublimi, questo discorso non è mai piaciuto
granché, piuttosto, la reazione è stata di gran disgusto per questo rumore; insomma, chi ha studiato
per dieci o venti anni al conservatorio questo discorso proprio non va giù! L’idea di un bambino
considerato compositore alla pari sembra proprio un insulto
Eppure, nel ventesimo secolo, la lacerazione dei tessuti sociali tradizionali ha favorito un modo
nuovo di relazionarci al suono che ha pian piano fatto terra bruciata attorno a questi signori
ascoltatori. È accaduto che uno sparuto numero di folli intellettuali – Webern, Cage, Varese,
Stockhausen -, che volevano dare più spazio ad un suono disorganizzato, ripetitivo e randomizzato
basato su timbri silenzi e serialità per nulla vicini alla Vita, ha finito per scardinare il
palinsesto armonico-razionale-tonale, diciamo, pentagrammabile della Musica ascoltata, verso suoni
ritmico-timbrico-fluttuanti destrutturati. Inintenzionalmente, questa scuola, a cui parte della
musica rock si è ispirata, ha prodotto un avvicinamento dei suoni alla Vita.
È un fatto di educazione mancata o, diciamo, di maleducazione e questo, sembra, si possa
ricollegare al fatto che l’indottrinamento dei nuovi arrivati – i bambini poi adolescenti – riesce
sempre meno a sortire risultati positivi per la loro salute bio-psichica.
Chi è il responsabile di questo fattaccio? Per il momento si può anticipare che il processo
capitalistico ha avuto, nella società occidentale, l’effetto inintenzionale di fare emergere la
Vita, e questa Vita si è dimostrata particolarmente incline al timbro, al ritmo, al flusso sonoro =
il Rock?
C’è una dialettica strana, che ha avvolto da sempre la musica prodotta nel XX secolo: da una parte
chi, cercando di trovare la propria identità al di fuori del contesto familiare, ha finito per
ascoltarla e venirne educato, comprando e vendendo dischi e chiacchierando con gli amici,
intellettualizzando il materiale sonoro; dall’altra, chi l’ha vissuta in un contesto audio-visivo
globale apprezzandola in movimento senza aver avuto per forza bisogno di metterla in relazione
(sociale). Purtroppo però, in entrambi i casi, la musica è durata poco, giusto il tempo di sentirsi
giovani, di percepirsi come tali, di drogarsi un po’ e agire di conseguenza
Comunque sia, in tutto questo tempo qualcosa è cambiato, silenziosamente (è proprio il caso di
dirlo): nel futuro assisteremo ad una fruizione dei prodotti sonori che si dirigerà sempre più verso
l’assorbimento immediato. La mole sconfinata di prodotti musicali presenti sulla piazza uditiva ha
permesso anche a chi ascolta il materiale sonoro registrato per conto suo di entrare in contatto
diretto – metabolico – con i suoni, sentirli. Ora, in definitiva, un sentire non socializzato (e più
umano) emerge con forza, mentre un ascoltare/per poi chiacchierare risulta sempre più
insoddisfacente.
Inoltre, le Vite mal-educate dalla società, che hanno portato a lungo l’espressione musicale come
tratto distintivo della loro identità, si sono emancipate dai vincoli sociali delle sottoculture:
ora, sembra che, sempre in più, metabolizzano i suoni per conto loro, anche se l’industria
discografica e la cultura dei sapienti continua ancora a decidere e a dettar legge su quale sound
sia meglio di un altro o su quale armonia è più meritevole di un’altra.
L’effetto che l’industria discografica – il capitalismo – vuole non è di certo la musica sentita,
sia chiaro, ma dobbiamo anche aggiungere che la sua è una logica strumentalizzante le emozioni
dell’ascoltatore.
Il sentire del bambino non è una categoria intellettuale o un processo mentale, esso coinvolge degli
automatismi che trovano la loro sorgente in una base corporea non relazionabile che sta sotto le
emozioni; perciò è nella dialettica emozioni/affetti che dobbiamo scavare per cogliere la
distinzione tra le dinamiche del corpo e quelle della società moderna.
…
da neuroingegneria.com
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