STORIA DELL’OLISMO – 6

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STORIA DELL’OLISMO – 6

da “Enciclopedia olistica”

di Nitamo Federico Montecucco ed Enrico Cheli

L’unità della varietà

Il prossimo punto che voglio sviluppare riguardo ai neuropeptidi è davvero sorprendente. Come
abbiamo visto i neuropeptidi sono molecole che mandano segnali: esse inviamo messaggi in tutto il
corpo compreso il cervello. Naturalmente per avere una tale ampiezza di comunicazioni, c’è bisogno
di componenti che possano ‘parlare’ tra di loro e che possano ‘ascoltarsi’. Nel quadro di quello che
stiamo discutendo, le componenti che ‘parlano’ sono i neuropeptidi e quelle che ‘ascoltano’ sono i
recettori. Come può essere? Come possono cinquanta o sessanta neuropeptidi essere prodotti, muoversi
nel corpo e parlare a cinquanta o sessanta tipi di recettori che ascoltano? Perché regna l’ordine
invece del caos? La scoperta che mi appresto a discutere non è accettata totalmente ma i nostri
esperimenti dimostrano che ciò è vero. Ci sono migliaia di scienziati che studiano i recettori e i
peptidi oppiacei, e tutti riscontrano una grande eterogeneicità nei recettori. Essi hanno dato una
serie di nomi greci a questa apparente diversità. Comunque, con ogni evidenza, l’esperienza dei
nostri laboratori suggerisce che esiste solo un tipo di molecola nel recettore oppiaceo: una lunga
catena polipeptidica di cui si può scrivere la formula. Questa molecola è in grado di mutare
facilmente la propria conformazione all’interno delle membrane, assumendo così un diverso numero di
forme. Ho notato così che questa interconversione può avvenire ad una forte velocità, così veloce
che è difficile dire, in un preciso istante, in quale stato essa si trovi. In altre parole è come se
questa molecola possegga sia una struttura tipo ‘onda’ che tipo ‘particella’, ed è importante notare
che l’informazione è memorizzata in relazione alla forma che il recettore aveva in quel preciso
momento.

Come ho detto, l’unità molecolare dei recettori è davvero straordinaria. Il tetrahymena, un
protozoo, uno degli organismi più semplici, nonostante la sua semplicità unicellulare, è capace di
fare tutto ciò che anche noi possiamo fare, può, mangiare, fare del sesso e naturalmente produrre
gli stessi componenti neuropeptidi di cui abbiamo parlato. Questo protozoo produce insulina e
beta-endorfina. Abbiamo preso la membrana del tetrahymena e studiato in particolare i recettori
oppiacei presenti nella loro superficie, abbiamo anche studiato i recettori oppiacei nel cervello
dei topi e nei monociti umani. Crediamo di aver dimostrato che la sostanza molecolare di tutti
questi recettori è la stessa. L’attuale molecola del nostro cervello è identica a quella dei
recettori oppiacei del più semplice degli animali! Io spero che la forza dei miei argomenti sia
evidente. I recettori oppiacei nel mio cervello e nel vostro sono fatti delle stesse sostanze
molecolari di quelle del tetrahymena: questa scoperta tocca la semplicità e l’unità della vita ed è
comparabile alle quattro coppie di basi del DNA che formano il codice per la produzione di tutte le
proteine, che sono il substrato fisico della vita. Sappiamo ora che in questi substrati fisici
esistono all’incirca 60 molecole segnalatrici neuropeptiche che prowedono all’elaborazione di tutte
le differenti manifestazioni fisiologiche delle emozioni o, se preferite, per esprimere le emozioni
vitali da un fluire di energie.

L’identica forma dei recettori del tetrahymena dimostra che i recettori non diventano più complessi
nell’evoluzione della complessità degli esseri viventi. Identiche componenti molecolari che
gestiscono il flusso di informazioni, attraverso l’evoluzione si conservano. L’intero sistema nel
suo complesso e semplice, elegante e completo in se stesso.

La mente è nel cervello?

Abbiamo parlato della mente e sorge la questione: dove si trova? Nel nostro lavoro la coscienza è
apparsa nel contesto dello studio sul dolore e sulla sua modulazione svolta dai recettori oppiacei e
dalle endorfine. Moltissimi laboratori stanno misurando il dolore e siamo tutti d’accordo nel
ritenere la sostanza grigia periacqueduttale (situata intorno al terzo ventricolo del cervello) come
una sorta di area di controllo del dolore, in quanto piena di recettori oppiacei. Noi abbiamo
trovato che la sostanza grigia periacqueduttale è anche piena di recettori per virtualmente tutti i
neuropeptidi finora studiati.

È ormai noto a tutti che ci sono Yogi che possono esercitare certe pratiche volontarie in modo da
non percepire più il dolore; a volte le partorienti possono fare la stessa cosa. Sembra che questo
tipo di persone siano capaci di ‘inserirsi’ nelle loro sostanze grigie periacqueduttali. In qualche
modo riescono ad avervi accesso, con la loro coscienza suppongo, e a modificare la soglia di
percezione del dolore. Notiamo cosa accade in queste situazioni una persona ha un’esperienza che
produce dolore, ma una parte della stessa persona fa coscientemente qualcosa in modo che il dolore
non venga sentito. Da dove viene questa coscienza, questo io cosciente, che si inserisce nelle aree
cerebrali del dolore in modo che il dolore non venga percepito?

Vorrei ritornare all’idea di rete di informazioni (network).

Una rete è differente da una struttura gerarchica che possiede una parte superiore e una inferiore.
Teoricamente ci si può inserire in ogni punto di una rete e raggiungere qualsiasi altro punto. Il
concetto di rete mi sembra adatto a comprendere il processo di come la coscienza è presente nelle
aree del dolore e di come le modifica per controllarlo.

Tanto lo Yogi che la partoriente usano una tecnica simile per il controllo del dolore: il respiro.
Anche gli atleti lo usano. Il respiro è estremamente potente. L’area neurofisiologica della funzione
respiratoria è nei nuclei del tronco cerebrale. Io ritengo che questi nuclei dovrebbero essere
inclusi nel sistema limbico in quanto sono ‘punti nodali’ fittamente disseminata di neuropeptidi e
dei relativi recettori.

La mia idea si potrebbe mettere così: il respiro ha una base fisica nei nuclei del tronco cerebrale
che sono anche un punto nodale, questo punto nodale è parte di una rete di informazioni in cui ogni
punto è in contatto con ogni altro, per cui la coscienza può, tra le altre cose, inserirsi sulle
funzioni delle aree del dolore.

Io ritengo sia possibile concepire la mente e la coscienza come prodotto dell’elaborazione delle
informazioni emozionali, e, in quanto tali, la mente e la coscienza apparirebbero esse re
indipendenti dal cervello e dal corpo.

La mente può sopravvivere alla morte fisica?

Un’ultima congettura, oltraggiosa probabilmente, ma coerente con il tema di questo simposio su
‘Sopravvivenza e Coscienza’. Può la mente sopravvivere alla morte del cervello? Credo che ora
dovremo ricordare come la matematica ritiene che le entità fisiche possono improvvisamente
collassare o espandersi all’infinito. Io penso sia importante realizzare che l’informazione è
immaganizzata nel cervello e mi sembra plausibile che l’informazione possa trasferirsi in qualche
altra dimensione. La molecola di DNA contiene sicuramente le informazioni che producono il cervello
e il corpo, e lo psicosoma sembra scambiare (nella riproduzione condazione n.d.r.) le molecole
dell’informazione che danno vita all’organismo.

Dove vanno le informazioni dopo la distruzione fisica della molecola (la massa) che la compone? La
materia non può essere creata né distrutta, ed è plausibile che il flusso di informazioni biologiche
non possa scomparire alla morte e debba essere trasformato in un’altra dimensione.

Chi può razionalmente dire ‘impossibile’? Nessuno fino ad ora ha unificato matematicamente la teoria
dei campi gravitazionali con la materia e l’energia. La matematica della coscienza non è ancora
stata applicata. La natura dell’ipotetica ‘altra’ dimensione è correttamente riconosciuta nella
realtà religiosa e mistica, in cui alla scienza occidentale è inibita ad addentrarsi.

Olismo: l’enigma della sfinge
di Gregory Bateson

Estratto da “Dove gli angeli esitano”. Queste note sono state scritte da Bateson negli anni ’40.

Che cosa pensiamo sia un uomo? Che cosa vuol dire essere umani? Che cosa sono questi altri sistemi
con cui entriamo in contatto e quali relazioni li legano?

Accanto all’enigma voglio proporvi un ideale: forse non è raggiungibile, ma almeno è un sogno che
possiamo cercare di approssimare. Questo ideale è che le nostre tecnologie, i nostri procedimenti
medici e agricoli, e i nostri ordinamenti sociali arrivino ad armonizzarsi con le migliori risposte
che sappiamo dare all’enigma della Sfinge.

All’enigma della Sfinge ho dedicato cinquant’anni della mia vita di antropologo. E d’importanza
primaria che la nostra risposta sia in armonia col modo in cui gestiamo la nostra civiltà e ciò
dovrebbe a sua volta essere in armonia con il I funzionamento effettivo dei sistemi viventi.

Ciò che le persone ritengono “umano” sarà da loro reso parte delle premesse dei loro ordinamenti
sociali; e ciò che viene così assimilato sarà sicuramente appreso e diventerà parte del carattere di
quanti vi partecipano.

E insieme a questa autoconvalida del nostre risposte c’è qualcosa di ancor più serio: qualsiasi
risposta favoriamo nel diventare parzialmente vera propri perché la favoriamo, diventa anche
parzialmente irreversibile. In queste faccende vi è un ritardo.

Dobbiamo andare molto ma molto cauti nel fare ipotesi sul tipo di creature con cui abbiamo a che
fare. Abbiamo già creato una nazione di litiganti costruendo un mondo in cui si attribuisce valore
monetario al danno e alla sofferenza e in cui è rischioso non essere coperti da un’assicurazione,
essere disarmati e nudi.

Inoltre le nostre idee su come rispondere all’enigma della Sfinge sono oggi in uno stato fluido. Ci
troviamo in piena confusione: le nostre convinzioni vanno mutando con una velocità paragonabile a
quella dei grandi mutamenti avvenuti nella Grecia classica, diciamo nel sesto secolo a.C., oppure
all’inizio dell’era cristiana. Il nostro è un mondo strano ed esaltante in cui sono in discussione
le premesse stesse della lingua. Qual è la lingua del cuore? E quella dell’emisfero destro? E quella
dell’Est? È il latino o l’inglese? O il sanscrito? È prosa o poesia? È lingua parlata o cantata? È
espressa nell’imposizione delle mani? O nella disciplina del chirurgo, del farmacologo o del
massaggiatore? E così via. Tutto ruota intorno all’antico problema del rapporto tra “mentre” e
“corpo”, il tema centrale delle grandi religioni del mondo.

Le vecchie credenze sono ormai logore e si brancola alla ricerca del nuovo. Qui non si tratta di
essere cristiani o musulmani o buddhisti o ebrei. Non abbiamo ancora una risposta nuova ai vecchi
problemi. Sappiamo qualcosa, molto poco, della direzione in cui stanno avvenendo le trasformazioni,
ma nulla del loro punto di arrivo. Dobbiamo tener vivo nella nostra mente non un’ortodossia, bensì
un riconoscimento ampio e partecipe della tempesta di idee in cui viviamo e in cui dobbiamo
ingegnarci di costruire il nostro nido, di trovare la pace dello spirito.

Ma per tornare agli aspetti più immediati dell’enigma della Sfinge, due elementi possono portare a
una risposta. Il primo è che la “natura umana” si autoconvalida. Il secondo è che nell’instabilità
in cui viviamo oggi esiste un punto nodale, ossia l’inizio di una nuova soluzione del problema
mente-corpo.

Sono convinto che ne sappiamo abbastanza da poter dire che la nuova visione sarà assai probabilmente
unitaria e che la separazione concettuale fra “mente” e “materia>, sarà considerata un derivato, un
prodotto collaterale, di un olismo insufficiente. Quando mettiamo a fuoco solo le parti, non vediamo
le caratteristiche necessarie del tutto e siamo quindi tentati di attribuire i fenomeni che derivano
dalla totalità a qualche entità soprannaturale.

“Olistico” è oggi una parola in voga: basti pensare a una locuzione come “medicina olistica”, con la
quale si indica una moltitudine di teorie e di pratiche, dall’omeopatia all’agopuntura, dall’ipnosi
alla terapia psichedelica, dall’imposizione delle mani alla coltivazione dei ritmi alfa,
dall’induismo allo Zen, dalla umanizzazione del rapporto medico-paziente alla totale
spersonalizzazione delle diagnosi fatte in base al tipo astrologico. E così via.

È da molto tempo che gli uomini sperano in soluzioni olistiche. La parola “olismo” risale a Smuts
(negli anni Venti) e nell’Oxford English Dictionary viene definita come “la tendenza in natura a
produrre totalità a partire dal raggruppamento ordinato di unità”. La riflessione sistematica sulle
totalità e sulle relazioni fra l’informazione e l’organizzazione, che consente di assegnare a questa
parola un preciso significato formale e non soprannaturale, risale all’Ottocento e a personalità
quali Claude Bernard (il “milieu intérieur”), James Clerk Maxwell (il “diavoletto” e l’analisi della
macchina a vapore con regolatore, 1870), Russel Wallace (la selezione naturale, 1858) e infine
Andrew Still, il “vecchio dottore” una figura assai importante per i medici.

Still fu il fondatore della medicina osteopatica. Verso la fine del secolo si convinse che le
patologie del corpo potessero essere provocate da uno sconvolgimento di quella che oggi chiamiamo
comunicazione, che l’organizzazione fisiologica interna del corpo fosse una questione di
trasferimento di messaggi e che la spina dorsale fosse il principale luogo di smistamento di tutti i
messaggi. Manipolando la spina dorsale sarebbe diventato quindi possibile curare tutte le patologie.
Still finì col diventare un po’ fissato, come del resto tutti gli uomini le cui idee sono in
anticipo di un secolo, e finì col credere che le sue teorie non solo spiegassero i molti difetti il
cui epicentro è collegato alla spina dorsale, alle sue posture e ai suoi messaggi, ma che potessero
essere anche applicate alle invasioni batteriche e così via. Ciò gli procurò dei guai, ma nonostante
tutto egli fu uno dei primi olisti proprio nel senso che io voglio dare a questa parola. Oggi
naturalmente non c’è più niente di strano nell’idea che la patologia sia una sorta di disarmonia o
discrepanza, un blocco o uno scompenso nell’ecologia interna del corpo. Perfino in patologie di
origine fisica, come le fratture ossee si comincia a portare l’attenzione anche sull’idea dell’osso
spezzato e sulla risposta a questa idea. Queste trasformazioni concordano con gran parte della
riflessione contemporanea in tutti i settori della biologia.

Il passo successivo è prevedere che entro i prossimi vent’anni questo modo di pensare apparterrà
anche all'”uomo della strada” e costituirà la base necessaria di un tipo di credibilità diffuso in
tutta la società e comune allo scienziato e al profano, al medico e al paziente.

La vecchia credibilità è ormai logora e la nuova avanza a velocità sorprendente. In effetti stiamo
imparando ad affrontare la tendenza del mondo a generare totalità fatte di unità collegate tra loro
dalla comunicazione. È questo che rende il corpo una cosa viva e operante come se avesse una mente –
e di fatto ce l’ha.

Ho l’impressione che dopo la seconda guerra mondiale la parola “olistico” abbia assunto un
significato pressoché nuovo e molto più preciso, che induce a sperare in una profonda revisione
della cultura occidentale.

Si comincia a capire che i misteriosi fenomeni che associamo alla “mente” hanno a che fare con certe
caratteristiche dei sistemi che solo di recente sono entrate nell’àmbito della scienza. Eccole:

1. Le caratteristiche dei sistemi circolari e auto-correttivi.

2. La combinazione di questi sistemi con l’elaborazione dell’informazione.

3. La capacità delle cose viventi di accumulare energia (uso il termine nel suo senso fisico
ordinario: erg, chilogrammetri, calorie, eccetera), col risultato che un cambiamento avente luogo in
un certo organo di senso (il ricevimento della notizia di una differenza) può scatenare il rilascio
dell’energia accumulata.

Altri elementi ancora che contribuiscono al nuovo modo di concepire il finalismo, l’adattamento, la
patologia e, in breve, la vita, vengono studiati in cibernetica, nella teoria dell’informazione,
nella teoria dei sistemi e così via. Ma qui voglio richiamare l’attenzione su una caratteristica del
nostro tempo, cioè che accanto al venir meno dei modi tradizionali di concepire la mente e la vita,
sorgono nuovi modi di riflettere su questi temi, accessibili non solo ai filosofi nelle loro torri
d’avorio, ma anche a chi è impegnato nella pratica professionale e all'”uomo della strada”. Sotto il
profilo storico questi nuovi sviluppi, emersi con chiarezza durante e subito dopo la seconda guerra
mondiale, hanno modificato quasi completamente tutto ciò che diciamo e pensiamo sul processo mentale
e sul complesso mente-corpo inteso come entità totale, vivente, autocorrettrice e autodistruttrice.

Se ci accostiamo ai fenomeni della mente con questi nuovi strumenti, allora la genetica e tutta la
determinazione della forma e della crescita, ciò che determina la simmetria del nostro volto, con un
occhio di qua e uno di là dal naso, insomma tutto ciò che è pilotato dai messaggi provenienti dal
DNA, può essere riconosciuto come parte dell’organizzazione mentale del corpo: come parte
dell’olismo.

Se allora poniamo la doppia domanda: “Che cos’è un uomo, che può conoscere la malattia o il
perturbamento o la bruttezza?” e “Che cosa sono la malattia, lo sconvolgimento o la bruttezza, che
un uomo può conoscerli?”, i nuovi modi di pensare forniscono una risposta unificante, cioè che un
sistema di comunicazione autoricorsivo può essere consapevole di disturbi del proprio funzionamento.
Può soffrire e avere molti altri tipi di consapevolezza. Può anche essere consapevole dell’armonia
del proprio funzionamento e in tal modo forse addivenire a una reverente consapevolezza del sistema
più ampio e più comprensivo e della sua bellezza.

Credere che non esiste una mente distinta dal corpo e (naturalmente) un corpo distinto dalla mente e
agire di conseguenza non significa affrancarsi da ogni limite. Significa accettare una nuova
disciplina probabilmente più rigorosa della vecchia.

Questo mi riporta alla nozione di responsabilità. È una parola che di solito non uso, ma qui la
voglio usare con tutto il suo peso. Come si deve interpretare la responsabilità di coloro che si
occupano dei sistemi viventi, della vasta ed eterogenea folla di entusiasti e di cinici, di generosi
e di avidi? Tutto costoro, individualmente o collettivamente hanno la responsabilità di un sogno,
che è poi il modo di porsi di fronte alla domanda: “Che cos’è un uomo, che può conoscere i sistemi
viventi e agire su di essi, e che cosa sono questi sistemi, che possono essere conosciuti? Le
risposte a questo duplice enigma devono essere costruire intrecciando insieme la matematica, la
storia naturale, l’estetica e anche la gioia di vivere e di amare: tutte contribuiscono a dar forma
a quel sogno. Ho ricordato prima che fa parte della natura umana apprendere non solo dettagli ma
anche profonde filosofie inconsce, diventare ciò che fingiamo di essere, assumere la forma e il
carattere che la nostra cultura ci impone. I miti in cui la nostra vita è immersa acquistano
credibilità via via che diventano parte di noi, indiscutibili, profondamente immersi nel carattere,
spesso a livello non consapevole, sicché sono essenzialmente religiosi, sono oggetto di fede.

È verso questi miti, e verso le forme che potranno prendere in futuro, che sono responsabili tutti i
nostri costruttori di miti, dai poeti agli scienziati, ai politici e agli insegnanti. I medici e gli
avvocati e i media sono tutti responsabili dei miti dinamici, delle risposte che essi danno
all’enigma della Sfinge.

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