Sul valutare, giudicare e condannare
di Marco Ferrini – Matsyavatara das
Nella vita, ai fini della nostra evoluzione, abbiamo il dovere di analizzare quel che accade, di
comprenderlo e farcene un’opinione. Analizzando i fatti possiamo anche comprendere eventuali errori
compiuti da noi o dagli altri, traendone una lezione, senza che ciò determini una sfiducia in noi
stessi o che faccia venir meno la nostra gratitudine nei confronti degli altri. In noi stessi, così
come negli altri, non vi è solo luce o sola ombra, e la nostra intelligenza va utilizzata nel
discernere questi due aspetti per capire in che modo possiamo correggerci e migliorarci.
L’osservazione, l’analisi, la valutazione dei fatti è un dovere per tutti, se vogliamo evolvere. Ma
l’analisi e la valutazione non debbono implicare il giudizio stigmatizzante o la condanna altrui.
Nel Vangelo secondo Matteo (cap. 7) si legge: Non giudicate, per non essere giudicati; perché col
giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati.
Da parte nostra c’è la necessità di capire, ma il giudizio spetta in ultima analisi soltanto a Dio.
Infatti nell’antichità anche la giustizia terrena si amministrava in nome di Dio, perché è soltanto
Lui che, colmo di compassione e misericordia, conosce veramente i cuori e può emettere un giudizio
finalizzato ad educare e a riportare le persone sulla retta via.
Quando vediamo individui in conflitto tra loro, non dovremmo tanto chiederci chi ha ragione, quanto
prima di tutto impegnarci a capire che cosa è successo e qual è la cosa giusta da fare per favorire
il ristabilirsi dei principi della verità, della giustizia e del bene a favore di tutti. Dobbiamo
essere interessati a fare la cosa giusta, non a denunciare chi non la fa o ad acclamare chi la fa.
L’anima ci sospinge verso l’alto, verso ideali nobili, verso la purezza e l’Amore. È la purezza la
vera forza, non l’astuzia né la furbizia. Si possono leggere anche tutti i testi sacri del mondo e
impararli a memoria, ma se la motivazione del nostro agire non è il desiderio di sempre maggiore
compassione, misericordia, purezza e amore per Dio e per tutti gli esseri, non si salirà nessun
gradino evolutivo. Impegniamoci dunque sempre a verificare qual è il nostro livello di comprensione
e di capacità di applicazione degli universali valori etici e spirituali, così come ci sono stati
trasmessi attraverso gli insegnamenti delle Scritture sacre e il modello di vita dei grandi Maestri.
Il nostro comportamento dovrebbe essere improntato al rispetto e all’umiltà, intendo però quelli
autentici, non di maniera, che ci permettono di offrire il nostro contributo e la nostra visione
agli altri con rigore etico e sensibilità, senza imporsi, senza aspettative o pretese, senza la
presunzione di avere noi la verità in tasca, nella consapevolezza che essa include innumerevoli
punti di vista e sfumature che la persona evoluta sa armonizzare e valorizzare facendole convergere
verso il punto più alto.
Dunque, ben consapevoli dell’importanza di non giudicare in maniera stigmatizzante né tantomeno di
condannare, in quanto esseri senzienti non possiamo né dovremmo sottrarci al valutare, esercitando
con senso di responsabilità la funzione discernente (tattva viveka in sanscrito), propria
dell’essere umano evoluto.
Forse, per chi viveva nel deserto o nella giungla, in eremi o nelle grotte di montagna poteva essere
non necessario, né tantomeno indispensabile, valutare azioni altrui implicanti ripercussioni dirette
o indirette nella propria vita e in quella della comunità in cui vivevano, ma certo oggi, in
generale, un tale atteggiamento non è consigliabile, specialmente quando si ha la responsabilità di
condurre nel mondo una qualsiasi impresa, che sia una scuola, un ashrama, un ospedale, un teatro,
un’impresa scientifica, economica, politica, religiosa o di altro tipo. In questi casi un tale
comportamento apparirebbe una limitazione inaccettabile delle indispensabili facoltà di valutazione,
condivisione e discernimento e anche una carenza grave nella percezione di sfumature nella visione e
nell’interazione con altri membri del contesto umano.
Non sempre, a causa di una certa irascibilità o rigidità nel nostro interlocutore, è possibile e
tantomeno utile confrontarlo personalmente e direttamente esponendogli quelli che a nostro avviso
sono le sue carenze o difetti, mentre invece è possibile anche in questi casi creare una rete di
comunicazioni e relazioni che possa indirettamente aiutare la persona a superare i propri limiti.
Per esperienza, abbiamo constatato quanto sia opportuno formare un equipe, un numero ristretto di
persone responsabili che possano occuparsi in maniera costruttiva e benevola di apportare un aiuto
concreto a chi ne ha bisogno. Un aiuto, per essere davvero tale, deve essere evidentemente animato
da benevolenza, affetto, fiducia che la persona possa essere persuasa a correggersi da errori
piccoli o grandi in virtù della stima e dell’affetto che abbiamo per lei e per le sue qualità
superiori.
Se, per ostentata umiltà, si seguisse il suggerimento di disinteressarsi di chi sbaglia, ciò ci
priverebbe di una sana capacità critica, intendendo con ciò non la critica distruttiva che
ovviamente rifiutiamo a priori, ma la sana critica costruttiva, quella che va ad edificare e curare
le persone, e per la quale possiamo anche parlare ad un amico di un altro amico perché lo si vuole
aiutare a più voci. Quando se ne parla a persona fidata e capace con il condiviso intento di
aiutarlo a diventare una persona migliore è certamente tutt’altra cosa rispetto alla maldicenza che
consiste nella denigrazione di qualcuno con l’obiettivo di danneggiarlo. Qualsiasi nostra
valutazione o riflessione su errori che abbiamo individuato nel comportamento altrui dovrebbe essere
fatta alla luce di fatti provati, senza rancori né astio né spirito di vendetta e ai soli fini di
far ravvedere la persona che ha errato e per proteggere altri da eventuali conseguenze.
Come spiega Shri Krishna nella Bhagavad-gita (XII.13-15):
Colui che non è invidioso di nessuno ma si comporta con tutti come un amico benevolo, non si
considera proprietario di niente ed è libero da una falsa concezione di sé, è equanime nella gioia e
nel dolore, tollerante, sempre soddisfatto, signore di sé e determinato ad offrire a me la sua
opera, con mente e intelligenza fisse in me, mi è molto caro. Colui che non è mai causa di
difficoltà per altri e che dagli altri non è mai turbato, che è equanime nella gioia e nel dolore,
che non è sopraffatto dalla paura e dalla sofferenza, mi è molto caro.
Lascia un commento