Swami Vivekananda – Chi era?

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Swami Vivekananda – Chi era?

Ramakrishna-math

Swami Vivekananda (1863 – 1902)

– La Vita –

Svámi Vivekànanda, il cui nome di famiglia era Narendranáth Dutta, nacque
nel 1863 figlio di Bisvanàth, un noto avvocato di Calcutta, e di
Bhuvanesvari Devi, una donna di grande intelligenza e devozione. Bisvanáth
era solito intrattenersi in erudite conversazioni con clienti e amici su
argomenti di politica, religione e problemi sociali. Egli sollecitava il
figlio a prendere parte a tali eventi e ad esprimere la sua opinione in
merito all’argomento trattato. Narendra, per nulla intimidito, diceva ciò
che gli sembrava giusto portando anche argomenti a sostegno delle proprie
idee e punti di vista. Alcuni amici di Bisvanàth non gradivano la presenza
del ragazzo anche per il fatto che avesse l’ardire di parlare di questioni
che riguardavano gli adulti. Il padre comunque lo incoraggiava e Narendra
ribatteva alle obiezioni osservando: «mostratemi pure dove sbaglio, ma per
quale motivo dovreste opporvi alla libera espressione del mio pensiero?»

Narendra imparò l’Epica e i Purána dalla madre che era molto abile nel
raccontare le favole. Dalla madre egli ereditò, fra molte altre qualità, la
memoria e infatti le doveva molto, come egli stesso avrebbe successivamente
riconosciuto.

Narendra era davvero poliedrico. Sapeva cantare, riusciva molto bene nello
sport, aveva la battuta pronta, una vasta conoscenza, una mente razionale e
un grande senso di solidarietà verso la gente. Aveva doti naturali di
comando ed era molto ricercato dalla gente grazie alle sue qualità.

Superò il “Entrance Examination” presso il Metropolitan Institution e gli
esami F.A. e B.A. presso il General Assembly’s Institution (ora chiamato
Scottish Church College). Il Rettore del College rimase colpito dalle
intuizioni filosofiche di Narendra e fu proprio dal Rettore che egli sentì
per la prima volta parlare di Ramakrishna.

Quale studente di filosofia, il problema dell’esistenza di Dio occupava
insistentemente i suoi pensieri. Esisteva un Dio? In questo caso, che
aspetto aveva? Che tipo di rapporti avevano con Lui gli uomini? Questo
mondo, con le sue molteplici anomalie, era una sua creazione? Affrontò
questi problemi con molte persone ma nessuno riuscì a dargli risposte
soddisfacenti.

Si mise allora alla ricerca di persone che potevano affermare di aver visto
Dio ma non ne trovò. Intanto Keshab Sen era diventato capo del Movimento
Brahmo; egli era un grande oratore e molti giovani, attratti dalla sua
oratoria, si erano iscritti al Brahmo Samaj. Anche Narendra si iscrisse e
per qualche tempo quello che gli veniva insegnato lo soddisfece. Ben presto
però incominciò a sentire che, per quanto riguardava la spiritualità,
l’insegnamento non riusciva ad arrivare al nocciolo della questione. Un suo
congiunto gli andava consigliando di visitare Ramakrishna a Daksinesvar
assicurandogli che avrebbe risolto tutti i suoi dubbi riguardanti la
religione. Lo incontrò invece per caso nell’abitazione di un vicino ma non
ci è dato di sapere quale fosse l’impressione che Ramakrishna produsse nella
mente del giovane. Egli comunque invitò Narendra a Daksinesvar a visitarlo
quando lo avesse voluto.

giorni passavano e Narendra diventava sempre più irrequieto sui vari enigmi
che la religione gli presentava. In particolare, egli voleva incontrare
qualcuno che potesse parlare di Dio con l’autorità di un’esperienza
personale. Si recò infine da Ramakrishna e gli chiese senza mezzi termini se
aveva visto Dio. Ramakrishna rispose affermativamente e aggiunse che se
Narendra lo avesse voluto avrebbe potuto anche mostrarglielo. Com’era
naturale, la risposta lo colse di sorpresa, ma non sapeva se prenderla sul
serio perché, malgrado fosse rimasto impressionato dalla semplicità e
dall’amore verso il Divino dimostrati da Ramakrishna, le proprie
idiosincrasie gli facevano sospettare che fosse un “fissato”.

Iniziò così ad osservarlo attentamente e continuò per un lungo periodo di
tempo finché non ebbe più dubbi: Ramakrishna era davvero un essere
straordinario, in grado di esercitare su se stesso il più completo dominio.
Non gli era mai capitato di incontrare prima d’allora un uomo di tal fatta.
Inoltre, egli era la migliore espressione di ogni verità spirituale da lui
predicata. Narendra ammirava e amava Ramakrishna, e tuttavia non rinunciò
mai alla propria indipendenza di giudizio. D’altra parte Ramakrishna, e ciò
riveste un interesse particolare, non pretese mai tale rinuncia né da lui né
da qualsiasi altro discepolo. Malgrado ciò, gradatamente Narendra giunse ad
accettare Ramakrishna come suo Maestro.

Ramakrishna venne colpito da cancro e nel 1886 lasciò la sua spoglia
mortale. Durante la sua malattia un gruppo di giovani scelti, di cui
Narendra era il capo, si era formato e aveva cominciato a prendersi cura di
lui ricevendone la guida spirituale. Ramakrishna aveva voluto che essi
seguissero la vita monastica e aveva simbolicamente dato loro la veste color
ocra (garua). Seguendo tale indicazione essi fondarono un monastero a
Baranagar e iniziarono a vivere insieme chiedendo il cibo in elemosina per
il proprio sostentamento. Ogni tanto andavano in giro come altri monaci
itineranti. Anche Narendra viaggiava e fu durante uno di questi viaggi che
prese il nome di Svámi Vivekánanda.

Vivekánanda viaggiò diffusamente per tutta l’India, a volte in treno, altre
a piedi. Egli rimase dolorosamente colpito dalle condizioni in cui versava
l’India rurale, una popolazione ignorante, superstiziosa, denutrita e
vittima della tirannia di casta. Ma ancor più venne colpito
dall’indifferenza delle classi della cosiddetta borghesia benestante e
istruita. Nel corso dei suoi viaggi incontrò molti principi dai quali veniva
invitato come ospite. Incontrò anche molti appartenenti alla classe colta
delle città: avvocati, insegnanti, giornalisti, e funzionari governativi.

A tutti costoro egli rivolse un accorato appello a fare qualcosa per le
masse, ma nessuno sembrò dargli ascolto a eccezione del maháraja del Mysore,
del maharaja di Khetri e alcuni giovani di Madras. Svàmi Vivekànanda fece
comprendere loro la necessità di mobilitare le masse. Gli intellettuali,
uomini e donne, non sarebbero stati in grado di risolvere i problemi del
Paese; per un’impresa di questo genere occorreva imbrigliare e dirigere la
potenza della massa che pertanto doveva ricevere un’istruzione.

Il mahàraja del Mysore fu tra i primi a rendere gratuita l’istruzione
elementare nel suo regno ma ciò, secondo il punto di vista di Svamiji, non
era affatto sufficiente. Un contadino non poteva permettersi di mandare i
figli a scuola in quanto aveva bisogno del loro aiuto nei campi. Era quindi
imperativo portare la scuola nelle case dei contadini in modo che i loro
figli potessero lavorare e studiare nello stesso tempo. Forse aveva in mente
un tipo di istruzione “non formale”; le sue lettere al maharaja del Mysore
dimostrano quanto avesse riflettuto su tale questione e con quanta
originalità.

Altri principi, e la classe colta nel suo insieme, erano colpiti dalla
personalità di Svamíjí ma erano troppo presi dai loro interessi personali
per prestare attenzione ai suoi appelli. Alcuni giovani di Madras, e
specialmente Perumal, si dedicarono agli ideali proposti da Svamiji e il
loro contributo per il successo della sua missione fu rilevante. Non era
difficile per Svámiji comprendere perché coloro che potevano influire sulle
opinioni della società lo ignorassero.

Non era che un semplice monaco itinerante, e nel Paese ve n’erano a
centinaia. Perché mai avrebbero dovuto prestare una particolare attenzione
proprio a lui? Essi in genere seguivano solo i pensatori occidentali e
quegli Indiani che avevano ottenuto dei riconoscimenti dall’Occidente perché
ne condividevano il pensiero. Era una mentalità servile, ma questo era
l’atteggiamento caratteristico degli intellettuali indiani su quasi tutti i
problemi. Vedere i suoi connazionali procedere impettiti nei loro abiti di
foggia occidentale, imitando modi e costumi occidentali come se fossero dei
veri occidentali, addolorava Svámiji. Più tardi si sarebbe rivolto alla
Nazione in questi termini: «Siate fieri di essere Indiani anche quando
doveste portare dei semplici perizoma».

Egli non era contrario a imparare dall’Occidente perché ne riconosceva le
qualità grazie alle quali il paese era diventato ricco e potente. Voleva che
l’India imparasse la scienza e la tecnologia dall’Occidente insieme alla sua
capacità organizzativa e al suo senso pratico ma, al tempo stesso, che
conservasse inalterato il proprio elevato ideale morale e spirituale.
L’egoismo delle persone della cosiddetta classe colta lo faceva soffrire
ancora di più. Si contentavano di badare al proprio benessere, indifferenti
a ciò che capitava agli altri. Svámiji voleva attirare la loro attenzione
sulle misere condizioni in cui versava la massa: analfabeta, sempre al
limite della sopravvivenza, superstiziosa e vittima dell’oppressione delle
caste superiori e dei ricchi proprietari terrieri.

Quando Svámiji arrivò a Madras i giovani gli si raccolsero intorno attratti
dalla sua luminosa figura e dai suoi ispirati discorsi. Essi lo pregarono di
recarsi negli USA e partecipare, in rappresentanza dell’Induismo, al
Parlamento delle Religioni che si sarebbe tenuto di lì a poco a Chicago. E a
tale scopo cominciarono anche a raccogliere fondi. Sulle prime Svámiji fu
riluttante ma poi si convinse che qualcosa di buono poteva venir fuori da
una sua visita in Occidente; infatti, se avesse potuto in qualche modo
suscitare interesse, i suoi connazionali, che giudicavano una cosa buona o
cattiva in base a ciò che ne pensava l’Occidente, lo avrebbero ascoltato con
maggiore rispetto.

Le cose andarono proprio così: Svámiji fece un’enorme impressione prima
negli Stati Uniti e poi anche in Inghilterra. La stampa gli tributò grandi
riconoscimenti quale esponente dei valori tradizionali dell’India. E in
India egli divenne in un batter d’occhio un eroe nazionale. Improvvisamente
tutti si accorsero del fatto che doveva esserci qualcosa nel pensiero
indiano che gli intellettuali occidentali sentivano di dover ammirare.
Lentamente ma inevitabilmente cominciarono a rivedere le proprie convinzioni
sul proprio paese e sulla sua civiltà. Cominciarono a sospettare che dopo
tutto non erano così arretrati come avevano creduto e che anzi, in campi
come la religione, la filosofia, l’arte e la letteratura, erano anche più
progrediti degli occidentali.

Si erano sempre commiserati, ma ora, per la prima volta, prendevano
consapevolezza della ricchezza della loro eredità: era l’inizio del
Rinascimento indiano di cui si sente parlare. Molti sono stati i capi di
Stato nazionali, a cominciare da Tilak, che hanno tratto ispirazione da
Svámi Vivekánanda e che tramite lui hanno “scoperto” l’India, i suoi punti
di forza e i suoi punti deboli. «Se vuoi conoscere l’India studia
Vivekánanda» era il consiglio che Tagore dava a Romain Rolland, un consiglio
tuttora valido perché nessuno ha mai studiato l’India così a fondo come ha
fatto Svámiji.

Egli denunciò lo stato di abbandono in cui si trovavano le masse come una
grave macchia nazionale. Un’altra macchia egli diceva essere lo stato della
donna priva di adeguate provvidenze. Il sistema delle caste, nella sua
attuale forma, era una terza macchia. Il pluralismo etnico e religioso non
rappresentavano per lui un problema serio in quanto l’India aveva sempre
cercato la propria unità nell’amore e nel rispetto verso tutte le diverse
sette e comunità. Vedeva con favore il sorgere del socialismo sia per
l’India che per il resto del mondo. Gli sudra vale a dire il proletariato,
avrebbero conquistato il potere e al fine di assicurare un pacifico
passaggio di poteri egli chiese ai bráhmana, cioè agli intellettuali, di
facilitarlo il più possibile. Onde evitare che un declino culturale potesse
seguire a questo passaggio cercava di sommergere il paese in un’atmosfera
spirituale.

Svamiji sperava che l’India potesse dare origine a un nuovo ordine sociale e
una nuova civiltà col mettere insieme le sue più elevate tradizioni
spirituali con le più recenti scoperte scientifiche e tecnologiche; sarebbe
così stata ricca sia materialmente che spiritualmente. Sapeva che la
ricchezza non era tutto, l’uomo doveva essere anche umano e in questo voleva
che l’India potesse dare l’esempio.

tratto da www.ramakrishna-math.org/insegnamento/viveka01.htm

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