di Maria Campolo
“L’individuazione, cioè la naturale tendenza dell’uomo a cercare la
totalità, è un processo che deve nascere dall’interno e non può provenire da
un’acquisizione esterna.”
Il taoismo nasce tra il V e il III sec. a.C. in Cina, in un periodo
particolarmente ricco di fervore intellettuale. Due tra i più importanti
esponenti di questo movimento filosofico, furono Lao-tze e Chang-tzu. Ad
essi fu dato l’appellativo di “saggi nascosti” perché, contrariamente agli
esponenti del confucianesimo, preferirono non ricoprire cariche di
consiglieri presso la corte imperiale. Il rifiuto fu per coerenza al loro
pensiero, secondo il quale era preferibile il “non-agire” all’interno della
vita politica e mondana per privilegiare un atteggiamento che si rivolga al
percorso interiore dell’individuo e ne esalti la potenza spirituale.
Questa attenzione rivolta verso il singolo rientra in una concezione
mistica che vede nella salute personale (intesa nel significato più ampio)
un vantaggio che si propaga a tutta l’umanità fino ad irradiarsi nell’intero
cosmo.
Per giungere a questa salute che porta longevità, se non addirittura alla
vita eterna, è necessario un percorso interiore che avrà come meta
l’identificarsi con il principio supremo: il Tao. Tao, che etimologicamente
significa cammino, strada da percorrere, è l’ordine naturale universale,
concepito come l’alternarsi della luce e delle tenebre, come fusione di
tutte le coppie antitetiche. Così come sono antitetiche e complementari le
modalità del Tao: lo Yin e lo Yang, ovvero l’aspetto freddo passivo e
l’altro caldo attivo. Ma il Tao non è solo il principio dell’ordine, è anche
la realtà ineffabile, superiore, che trascende i modi sensibili ed
insensibili dell’essere.
E’ la Madre del mondo, sorgente di vita ed è anche una realtà che non può
essere nominata, tanto che il vocabolo Tao è solo un appellativo pratico.
Questa “Femmina Misteriosa” e le virtù ad essa legate sono ciò a cui l’uomo
deve tendere poiché, secondo Lao-tze, è proprio attraverso questo principio
femminile che si realizza la pura vacuità.
Il vuoto è uno dei temi fondamentali del pensiero taoista poiché
caratteristica del Tao è l’assenza di qualità sensibili. E’ concepito come
una totalità che si può conoscere solo intuitivamente ed indipendentemente
dall’uso dei sensi che danno all’uomo solo una percezione parziale del
reale. Ne deriva che tendere verso il Tao significa adoperarsi per essere
vuoto di particolari nozioni e passioni e giungere così alla conoscenza
perfetta che avviene quando vi è l’annullamento della distinzione tra io e
mondo.
L’accesso ad una vita superiore è dato dalla pratica dell’estasi in cui i
principi vitali e spirituali, adeguatamente coltivati, possono portare alla
quiete interiore, all’armonia, all’equilibrio psico-fisico, offrendo
all’anima, finalmente unificata, un luogo da cui non vorrà più fuggire per
rincorrere vani desideri.
Per giungere a questa estasi salvifica l’adepto troverà come primo ostacolo,
avvertono i maestri, se stesso, ovvero dovrà affrontare le sue idee
preconcette e liberarsene vedendone la relatività e il legame alle
convenzioni sociali.
Meditare o “abbracciare l’unità” è unirsi al Tao e a se stessi in uno
stato di illuminazione in cui si è trasportati fuori dalla dimensione
spazio-temporale. Ciò avviene perché, come abbiamo detto, il Tao è la Vita
stessa e chi riesce a raggiungere questa unione, o meglio ad identificare il
proprio principio vitale, ha ritrovato in sè anche il principio vitale
dell’universo e può vivere eternamente poiché, sostiene Lao-tze, non avrà
più nulla da temere non essendoci più posto in lui per la morte.
Le varie pratiche seguite, sia di carattere fisiologico che spirituale
nutrono lo spirito vitale e trasformano gli elementi corruttibili del corpo
in sostanza immortale. Secondo i taoisti, chi fosse riuscito a raggiungere
il Tao sarebbe entrato a far parte degli Immortali che essi suddividono in
varie categorie. Vi sono immortali che vivono sulla terra, molto spesso
isolati, non invecchiano e sono dotati di poteri magici; altri che si
involano in cielo in un’apoteosi luminosa e altri ancora che solo
apparentemente muoiono. Di questi ultimi si seppelliscono in realtà solo dei
resti mentre il vero corpo vaga nel cosmo con gli altri Immortali: è ciò a
cui si dava il nome di “liberazione del corpo mortale”. Quando il taoismo
diventò una religione rivolta alle masse, fu costretto ad esplicitare una
sua morale e a dettare norme di disciplina. Nacquero manuali in cui si
potevano ricavare precetti e divieti che, oltre a fornire una guida
personale, regolavano la vita comunitaria.
L’Occidente sviluppò verso la cultura orientale un grande interesse che
raggiunse nel Novecento punte di vero entusiasmo. Tra coloro che subirono
questa attrazione e contribuirono alla divulgazione del pensiero orientale
fu Carl Gustav Jung. Il perché di questo interesse è spiegabile, a parere di
John Clarke, analizzando i parallelismi esistenti tra l’opera dello
psicoanalista svizzero e la concezione della cultura orientale.
Jung vedeva nella sofferenza dei suoi pazienti e nelle terribili barbarie di
cui era stata capace la nostra civiltà, i sintomi della malattia di cui è
afflitto l’Occidente. Malattia dovuta ad uno squilibrio che si era venuto a
creare in una società troppo incline all’esteriorità e sottoposta ad un
eccessivo dominio della razionalità e del controllo dell’Io.
I simboli religiosi tradizionali che hanno caratterizzato la spiritualità
in Occidente sono via via venuti meno e hanno lasciato al loro posto un
vuoto che ben lontano dall’essere la pura vacuità taoista, ha il sapore del
baratro.
Il taoismo, così come altre correnti del pensiero orientale, venne incontro
a Jung come una realtà altra in cui l’esperienza interiore era qui posta al
primissimo posto.
Nel dialogo che intraprese con gli antichi testi cinesi (vedi Il Fiore
d’oro) egli vide la possibilità di costruire quel “ponte d’intima intesa
spirituale tra Oriente ed Occidente” che lo portarono ad approfondire dei
temi già presenti nel suo pensiero. Come i filosofi orientali, anch’egli era
alla ricerca di una “nozione di individualità capace di oltrepassare i
ristretti confini dell’Io cosciente”; il tentativo fu di superare le nette
contrapposizioni (come spirito-materia) e di appagare il bisogno dell’uomo
con quella completezza che conduce al Sè. Il grande interesse per l’Oriente
non gli vietò di avere un atteggiamento critico riconoscendone i lati di
squilibrio che, per motivi esattamente opposti alla nostra, pure la cultura
orientale presentava. Mise in guardia l’Occidente soprattutto dal pericolo
di deprezzare l’intelletto e la nostra cultura, cadendo nella tentazione di
abbracciare, fagocitandole, dottrine religiose orientali per riempire quel
posto resosi vacante dalla morte della vecchia sacralità.
Jung era convinto che l’essenza della religiosità fosse il fare
esperienza del sacro, e quindi la soluzione non poteva trovarsi in una fede
o in una specifica dottrina adottata al posto di un’altra. Il taoismo, così
come altre forme di pensiero, ci testimoniano un differente modo di essere
e, proprio come l’altro con cui si entra in rapporto, ci offre la
possibilità di considerare sotto una nuova luce ciò che noi siamo.
Ma proprio attraverso il dialogo con l’altro giungiamo a comprendere che
davvero “altro da noi” non è, poiché ci conduce ad un nucleo comune
dell’umanità in cui le differenze sono solo i mille modi in cui l’Essere
dice di sé.
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