di Aliberth Meng
Nel Buddismo, malgrado la riluttanza dei maestri nell’ammettere le
donne nell’ordine, la femminilità fu una necessità psicologica e fu
inclusa nella relativa struttura spirituale. La compassione –
l’aspetto più tenero dell’essere, sia umano che divino, che era il
cuore del Buddismo, si rivelò al meglio nella struttura femminile.
Quindi, nel corso del tempo, il femminile dominò così tanto l’ambiente
buddista che persino immagini di alcune divinità maschili, come
Avalokiteshvara, furono concepite con sembianze un pò femminili nella
loro figura e come aspetto essenziale della personalità. La tenerezza
e la grazia prettamente femminili con cui le successive immagini
buddiste furono concepite, definiscono l’epitome dell’iconografia e
dell’arte buddista. Dopo benevolenza e protezione, altre virtù che
rappresentavano meglio la femminilità furono aggiunte a quella
cardinale della compassione. Questo aspetto femminile fu più
diversificato e spinto, col risultato che durante la fase Mahayana,
ancor più nel Buddismo Tibetano, il numero di divinità femminili
raggiunse il migliaio.
A parte queste psicodinamiche, fattori esterni del Buddismo,
specialmente il culto della pluralità del Brahamanesimo e la
preponderanza degli elementi femminili, giocarono un ruolo vitale nel
determinare il rapporto maschio-femmina ed anche la loro relativa
importanza nel Buddismo. Più o meno dal sesto secolo la reciprocità
delle Brahmaniche divinità maschili e femminili, era stata totalmente
rivoluzionata, con la supremazia e la priorità di quelle femminili su
quelle maschili, persino sulla grande Trinità – Brahma, Vishnu e
Shiva. Testi come il ‘Devi-Mahatmya’ nel Markandeya Purana, e il
‘Devi-Bhagavata’ tra gli altri, hanno insediato la Devi (la Dea) non
solo per il suo possedere cumulativi attributi ed energie di tutte le
divinità maschili, ma addirittura precedendoli, perfino nella
creazione. Invocando una forma o un aspetto differente, in ciascuno
dei ‘dhyana’ – le visioni meditative, questi testi hanno percepito la
Devi – Divino Femminile, come una ed anche molte, con la prima che
definiva l’unità e le altre, la diversità. A questa pluralità furono
aggiunte le sue ‘shakti’ – poteri subordinati. Gli aborigeni, come
pure gli Ariani Vedici, avevano alcune antiche divinità femminili ma
mentre quelle nella precedenti tradizioni erano solo icone locali
poco-funzionali che conferivano benefici, la maggior parte delle
successive, rappresentate da elementi non-iconici o aspetti della
natura – che solitamente infliggevano terrore, e venivano placate da
lodi e da offerte di ‘havya!’ -. Tuttavia, la successiva più completa
forma di Devi, post-Devi-Mahatmya, era completamente differente da
entrambe.
Anche il Buddismo aveva avuto in precedenza alcune divinità femminili,
principalmente ereditate dai culti del passato, come la Dea della
Terra, ed alcune yakshani, Hariti in particolare, dalle tribù
aborigene, e Lakshmi e Saraswati, dai Vedici. Interessante è che la
Dea della Terra che aveva avuto una presenza iconica nei culti
pre-Buddisti, fu nel Buddismo una presenza simbolica, mentre Lakshmi e
Saraswati, divinità aniconiche dei Vedici, ebbero ben definite forme
iconografiche nel Buddismo. Quando il Buddha ha invocato la madre
Terra per essere testimone al suo atto di conquista su Mara ed il suo
esercito, la percepì tutta vedendola come senza-forma, competente per
certificare la genuinità del suo atto.
Tranne il Lalitavistara, che parla di lei mentre appare di persona, o
il Nidanakatha ed il Mahavastu che parlano del suo tremito mentre
scaccia Mara ed il suo esercito, in tutta la letteratura buddista la
madre Terra rimane una presenza spirituale aniconica non-operante.
Alla Dea della Terra si allude in alcuni testi, a volte ripetutamente,
come Sthavara – la Tenace, che possiede un milione di forme, ed altre
volte come Aparajita – L’Invincibile, che non compare ancora nelle
descrizioni buddiste. Nelle descrizioni del Mahayana lei appare prima
della pellegrina Suthana, ma solo per proclamare che lei fu la
testimone ‘delle trasformazioni spirituali di tutti i Buddha, allorchè
essi stavano quasi per ottenere l’Illuminazione’, un ruolo identico al
suo precdente. Più tardi, dopo che Mayadevi, la madre del Buddha, fu
deificata presso Lumbini, dove nacque il Buddha, il ruolo della Dea
Madre si spostò su di lei.
Questa umanizzata madre del loro Maestro, era una madre più intima e
ispirava una maggiore riverenza della simbolica Dea della Terra. Come
narra la tradizione, Mayadevi restituì la sua forma mortale subito
dopo che il Buddha fu partorito, solo per cercare una libertà più
grande e per andare a rivisitare il suo figlio ogni volta che lo
desiderava. Di conseguenza, ogni volta che nasceva un Bodhisattva
Mayadevi ricreava se-stessa per essere sua madre. E così lei fu la
madre di tutti i Bodhisattva e di tutti i Buddha, essendo presente in
tutte le temibili occasioni della vita del Buddha, come quando presso
il fiume Niranjana egli fortemente emaciato a causa del digiuno. I
suoi occhi si bagnarono di lacrime nel momento in cui ella lo vide.
Poi, il Buddha andò a visitarla nel Paradiso di Trayastrinsha o
Tushita, e lo testimoniò con un sermone. Si dice che lei discese dal
cielo durante il Mahaparinirvana del Buddha, e si mise a piangere
sopra le sue vesti.
L’altra donna che assurse alle altezze divine e raggiunse lo
Stato-di-Buddha fu la zia materna del Buddha, Mahaprajapati Gautami,
che lo allevò dopo la morte di sua madre Mayadevi, che era sua
sorella. Tuttavia, nelle descrizioni buddiste, Gautami compare solo
dopo che Shakyamuni raggiunse la Buddhità, e nell’accettare il suo
Sentiero, lei intraprese la sua ricerca per la liberazione come una
normale monaca. Fu la prima donna a ricercare la vita monastica al
pari degli uomini, e a stabilire l’ordine femminile delle monache. E
fu proprio lei a fondare l’ordine delle monache, e fu anche il primo
precettore del suo primo gruppo. Quindi, ebbe un eccezionale ruolo
nello sviluppo della vita istituzionale nel Buddismo. La tradizione
Buddista venera Gautami come il Buddha femminile, che ha distrutto
tutte le sue imperfezioni, ha acquisito grandi meriti e poteri,
conosceva il pensiero degli altri, sentiva i cori divini e arrivò ad
essere oltre il ciclo di nascita e morte. Nessun altare è dedicato a
Gautami, ma lei fu ben raffigurata nell’arte leggendaria delle sètte
buddiste e su di essa molte teste dei fedeli si sono sempre chinate in
riverenza.
-Il culto di Hariti e Yakshani –
Gli Yaksha-yakshani, spesso scambiati per ‘divinità’, erano una parte
integrante della cosmologia pre-Buddista e la loro adorazione era un
importante attività di culto da parte del popolo Indiano. Il Buddismo
non si preoccupò, ma neanche proibì né ignorò l’adorazione degli
yaksha. Anzi, yaksha e yakshani erano un tema ricorrente nell’arte
iniziale buddista. Persino il Buddha raccomandò alle persone di
onorare, adorare e fare offerte agli yaksha, poiché essi apportavano
prosperità. Egli ordinò persino che Hariti, la yakshani, avrebbe
dovuto avere un altare in ogni monastero ed anche una offerta ogni
giorno. Da allora, l’altare di Hariti divenne una caratteristica
essenziale di tutti i monasteri, ed Hariti, la loro divinità
protettiva. Hariti, benevolente matrona circondata da bambini,
rappresentava la capacità di procreare, l’abbondanza e la fertilità
tipiche della femminilità.
Hariti, che significa ‘ladra’, inizialmente era una divoratrice di
infanti. Il Buddha poi la trasformò in una protettrice dei bambini e
benefattrice degli esseri umani. Come dice il Mulasarvastivada Vinaya,
Hariti era la figlia di Shata, lo yaksha patrono di Rajagraha. Il suo
nome era Abhirati. Dopo che Shata morì, i suoi doveri verso Rajagraha
furono devoluti su Abhirati e sul suo fratello Shatagiri. Abhirati,
tuttavia, aveva una diversa mente rispetto al padre. Anziché servire
come protettrice, lei aveva fatto il voto di depredare i bambini di
Rajagraha e lo rivelò allo stesso suo fratello. Vedendo che nulla
poteva dissuaderla, Shatagiri la fece sposare a Panchaka, il figlio
dello Yaksha patrono di Gandhara. Lei ebbe da lui cinquecento bambini.
Dopo un pò, impulsata dal doversi comportare secondo il suo malefico
impegno verso la sua prole, lei ritornò a Rajagraha ed incominciò a
rapire e divorare tutti gli infanti ed i bambini. Così il re ne fu
informato e su consiglio del suo consigliere furono fatte offerte allo
sconosciuto yaksha, ma senza alcun risultato. Nel frattempo, un altro
yaksha rivelò tutto, dicendo quello che Abhirati stava facendo. Il
termine ‘Abhirati’ significava ‘ragazza gioiosa’, qualcosa che non si
riferiva certo a ciò che essa faceva. La gente perciò cambiò il suo
nome in Hariti, ‘ladra’. Finalmente, la cittadinanza andò da
Shakyamuni il quale mosso dal loro dolore decise di occuparsi di
Abhirati di sua propria mano. Egli nascose Priyankara il figlio più
giovane di Abhirati sotto la sua ciotola delle elemosine. Abhirati,
non trovandolo da nessuna parte, cominciò a piangere a dirotto tanto
che ne fu quasi accecata. Alla fine, consigliata da uno yaksha anziano
lei andò da Shakyamuni e gli promise che si sarebbe impegnata a
cambiare vita lo stesso giorno che lui gli avrebbe fatto ritrovare suo
figlio. Questo dette al Buddha l’occasione affinché la stessa Abhirati
realizzasse il dolore dei genitori che avevano perso il loro unico
figlio, poichè la perdita di uno solo dei suoi cinquecento figli
l’aveva fatta impazzire.
Realizzando i suoi peccati Hariti capì i genitori di cui aveva rubato
i bambini e promise non solo di smettere ma anche di proteggerli e
nutrirli d’ora in avanti. Si rivolse quindi al Buddha come sua guida
spirituale ed al suo Sentiero. Il Buddha le restituì il suo bambino.
Egli poi ordinò che ella avesse una parte delle offerte e con queste
potesse nutrire la sua prole. Inoltre le rivelò il motivo che la
costringeva ad essere una divoratrice di infanti e di bambini. In una
delle sue nascite precedenti, lei era una pastorella in Rajagraha. Un
giorno in cui si era reacata al mercato per vendere il suo latte e
burro, c’era una folla enorme di gente che celebrava un certo festival
ed alcuni la invitarono a ballare. Accettando l’invito lei partecipò e
ballò fino all’esaurimento. Malgrado tutto ciò, lei vendette il suo
latte per cinquecento manghi e poi se ne tornò verso casa. Sulla
strada del ritorno, lei incontrò un Pratyekabuddha (asceta solitario).
Impressionata da lui, gli offrì tutti i suoi cinquecento manghi. Nel
momento della sua profonda riverenza però, lei si impegnò a vendicarsi
della gente di Rajagraha per il suo errore, divorando i loro bambini.
– Lakshmi e Saraswati –
Lakshmi e Saraswati sono due divinità del ‘Rig-Veda’ trapiantate nella
linea buddista. Il loro assorbimento nel flusso buddista è stato reso
forse necessario da quello che esse rappresentavano – Lakshmi,
abbondanza, prosperità, fertilità, felicità, bellezza, lustro,
sovranità, tra le altre cose, e Saraswati, arte, cultura, erudizione e
tutte le realizzazioni dell’intelletto. Con così tanti seguaci dal
volgo e dai ceti superiori, anche il Buddismo non poteva certo
ignorare Lakshmi. E, un ordine come il Buddismo, che stimava la
saggezza, il ragionamento, l’abilità oratoria, come le migliori
dell’uomo, non poteva rifiutare Saraswati, la quale oltre ad
incarnarle aveva molto in comune con la più venerata divinità
buddista, Prajnaparamita. Gli antichi testi buddisti, tuttavia,
risultano alquanto evasivi riguardo ad entrambe. Lakshmi ha una
significativa presenza nell’arte buddista primitiva a Bharhut ed a
Sanchi, ma di Saraswati non c’è traccia. Intorno al terzo secolo d.C.,
anche Lakshmi sparisce. Tranne per un paio di immagini di Lakshmi non
se ne vedono neppure nelle sculture del Gandhara. Intorno al
sesto-settimo secolo le immagini di Lakshmi cominciano a comparire su
più larga scala, anche se non sono nella linea buddista, ma
Brahmanica. La presenza di Lakshmi nell’arte primitiva, ma l’assenza
nei testi e nell’arte, con le sue icone che decorano spazi secondari,
non facenti parte dell’idoneo tema buddista, sono sintomatiche. Forse,
mentre i ricchi donatori che incaricavano la costruzione di stupa, o
di una loro parte, a Bharhut, Sanchi o in qualunque altro luogo,
insistevano per l’inclusione delle icone di Lakshmi al fine di
ottenerne i favori, l’ordine dei monaci che determinavano la linea di
un testo, o il corpo del tema da intagliare in un luogo sacro, era
riluttante ad ammetterla nel pantheon, almeno come normale divinità.
Il conflitto è stato risolto forse includendo delle icone di Lakshmi
come motivi secondari, non come divinità ufficiale, o parte di un
regolare tema buddista.
Saraswati era la patrona degli intellettuali – poeti, drammatisti.
Questi intellettuali non erano strumentali, come i ricchi donatori,
nella costruzione dei templi e, quindi, le immagini di Saraswati non
venivano patrocinate. Comunque, il Buddismo aveva in Tara e
Prajnaparamita le sostitute di Saraswati, divinità con una vasta gamma
di attributi e di aspetti personali. Fu nel tardo Buddismo tibetano
che l’ordine dei Lama portò nuovo impulso al culto di Saraswati e la
consacrò nel pantheon buddista.
– Tara –
L’iscrizione Nagari del 778 d.C. nel santuario di Kalasan Chandi a
Giava rende omaggio a Tara in questo modo: ‘Colei il cui sorriso ha
fatto si che il sole risplenda ed il cui aggrottare le ciglia ha fatto
sì che l’oscurità avviluppi la sfera terrestre’. A parte questo, il
principe Shailendra, fondatore del santuario, loda la dèa come quella
salvatrice degli uomini, la più nobile e più venerabile. Poi dedicò a
lei un solo tempio, ma intorno al dodicesimo secolo difficilmente a
Giava vi era un santuario di famiglia che fosse senza un’immagine di
Tara.
Tara, la principale dèa buddista concepita con una vasta gamma di
attributi e aspetti personali, ha nel Buddismo la stessa importanza di
Devi o di Durga nel Brahmanesimo. Mentre le varie dèe Brahmaniche
assomigliano a differenti forme di Devi, la maggior parte delle
divinità buddiste appaiono come ‘bheda’ (manifestazioni) di Tara.
Poichè la Devi ha preceduto tutte le divinità, Tara come
Prajnaparamita – Perfezione di Saggezza e del più alto principio
metafisico, è ritenuta avere priorità persino sul Buddha. Come la Devi
che rivelò a Vishnu chi egli fosse e per quale motivo era lì, Tara nel
Buddismo è la luce e la fonte principale di Buddhità e quindi di tutti
i Buddha. Come Devi, che è consorte di Shiva, Tara è stata concepita
come consorte di Avalokiteshvara. Come Devi che è la madre degli dèi
di ordine più alto, anche Tara è la madre di tutti i Buddha e
Bodhisattva, almeno nel Buddismo Mahayana. Tara ha avuto una presenza
antica nel pantheon buddista; tuttavia fu in gran parte dopo
l’emersione del culto di Devi intorno al sesto-settimo secolo che Tara
assurse ad uno ‘status’ alla pari con ogni altra divinità buddista e a
volte fosse venerata come il grande Maestro stesso. Il Buddismo
tibetano ha migliaia di divinità con identità locali; però Tara è una
divinità nota a tutti ed il suo mantra (Om Tare Tuttare Ture svaha) è
recitato da tutte le bocche. Nel Tibet è quasi una divinità nazionale.
Gli studiosi hanno scoperto in antichi testi come il Mahabharata un
termine ‘tarini’, che significa ‘una che trasporta i suoi devoti oltre
le acque della sofferenza’, e lo hanno collegato con Tara, suggerendo
così la sua antica origine e la connessione Brahmanica. L’argomento
però non è molto convincente. La forma di Tara, come emersa più tardi
nel Tantra, o come quella del Mahavidya, non era nota ai redattori del
Mahabharata o dei diciotto principali Purana. Anche se non così
presto, indubbiamente lei precedette Mahavidya, poichè quando il culto
di Mahavidya, con una sola Mahavidya, e non dieci, si stava appena
evolvendo, Tara aveva già la sua forma pienamente evoluta. La sua
trasformazione come una delle Mahavidya avvenne assai più tardi. Nella
sua antica forma Tara era vista come una ‘shakti’ dominante – con i
poteri di controllare gli sbalzi delle acque, di proteggere i
naviganti e di guidare le imbarcazioni. Prima della sua trasformazione
come seconda Mahavidya, il concetto di Tara continuò a cambiare. Nel
‘Agni Purana’, è una Yogini, non una devata (divinità).
Nel ‘Mayadipaka’, ha una forma, mentre come Mahavidya, ne ha un’altra.
La tradizione Shivaita la considera come trasformazione di Mahamaya,
la ‘grande illusione’. L’epiteto di Shiva dopo che egli appiccò il
grande fuoco durante la zangolatura dell’oceano era Akshobhya –
L’Imperturbabile, e Tara era la sua consorte. La prima presenza di
Tara è, tuttavia, nei Tantra. I libri dei Tantra Brahmanici non vanno
indietro oltre il sesto secolo. Ovviamente, la Tara Brahmanica deve
sorgere soltanto successivamente. L’iscrizione di Giava è datata 778,
ed il Chalukyan, datato circa nel 1095-96, contiene le sue più antiche
annotazioni epigrafiche conosciute. Popolare tanto a Sud quanto nel
Nord, Tara è la divinità principale di tutti i Tantra più
significativi. Anche nei testi Brahmanici, il Chinachara-krama – il
modo di adorazione predominante in Cina, era il modo accettato del suo
culto. Inoltre, la leggenda che il saggio Vashishtha andò in Mahachina
per imparare dal Buddha il modo di adorare Tara, poichè lo stesso non
era noto a nessun altro, come pure la sua forma differente da tutte le
altre divinità del Brahmanesimo, suggerisce che la Tara buddista era
il suo prototipo.
Tuttavia, i due concetti della dèa sono ampiamente differenti.
Nonostante abbia molte manifestazioni, nel Buddismo Tara è quasi
sempre benevolente, compassionevole, delicata, gioiosa, giovane,
brillante e protettiva. La Tara Brahmanica, particolarmente come
Mahavidya, è quasi sempre feroce, spesso di aspetto orribile e
potenzialmente pericoloso, come quello di Kali. Solitamente è
concepita come una guida per i cadaveri nella terra di cremazione, o
nell’atteggiamento di un arciere – posizione di pratyalidha. Non che
nel Buddismo Tara non abbia una forma feroce, o che non l’abbia
benigna nel Brahamanesimo; in generale, nel contesto più antico lei
manifesta gli aspetti delicati, mentre in quello successivo, gli
aspetti feroci. I testi Brahmanici alludono alle sue diverse e
numerose forme, tuttavia, fra di esse, tre – Ekajata, Nilasaraswati ed
Ugra sono le più significative. Tararahasya, Taratantra, Tantrasara e
Mantramahodadhi sono i principali testi Brahmanici sul culto tantrico
di Tara.
– L’origine di Tara –
Sull’origine di Tara prevale una certa ambiguità rispetto al luogo ed
al periodo. Il Buddha fu restìo ad ammettere le donne nel Sangha.
Perciò, anche l’antico principio del culto di adorazione femminile non
potè che essere una remota possibilità. Gli studiosi occidentali,
fuorviati dalle sue rappresentazioni in pietra del settimo o ottavo
secolo, fissano la sua origine a quel tempo ed in un qualche luogo
nella regione himalayana, probabilmente Tibet e dintorni. Senza dubbio
antiche rappresentazioni pittoriche di Tara, nelle caverne a Nishik,
Ellora, Kanheri ecc., sono databili al sesto-settimo secolo, ma un
concetto o un principio metafisico che emergesse così estesamente e
con tale preminenza nell’arte, in simultaneità alla sua origine, è
qualcosa difficile da concedere. Il viaggio dalla mente di un concetto
religioso è nato all’interno della mente che lo ha creduto, ed
inoltre, alla convenzionale visualizzazione nella pietra o qualche
altro mezzo, che la rappresentava, poteva occorrere molto tempo, più o
meno alcuni secoli. Più ragionevolmente, Tara ebbe la sua origine nei
secoli che precedettero l’Era Comune, forse come culto già prevalente
fra gli aborigeni o altri popoli, che il liberale Buddismo prontamente
adottò. Essendo sempre più forte e popolare il culto di Tara assorbì
altri simultanei culti simili ed emerse come il più potente. Le
trasformazioni visive di Tara emersero in seguito, non prima del
quarto secolo, almeno. Le primitive immagini di Avalokiteshvara sono
senza Tara, il che suggerisce che la sua forma come consorte di lui fu
uno sviluppo successivo, forse per inseguire il modello
Ardhanarishvara di Shiva e Shakti.
A parte le allusioni accademiche che l’adorazione di Tara sia stata
fatta rivivere in Tibet da Nagarjuna, il fondatore della scuola
Madhyamika, l’origine di Tara è presente in parecchi interessanti
miti. Si dice che tutte le creature del mondo abbiano cominciato a
deplorare Avalokiteshvara quando egli stava per raggiungere il nirvana
– la liberazione finale. Avalokiteshvara le ascoltò. Il suo cuore si
fuse nella compassione per la loro sofferenza e le lacrime che scesero
dai suoi occhi si sono trasformate in Tara. La Tara nata in questo
modo era l’essenza dell’essenza della compassione. Lo Swatantra-tantra
rileva la sua origine nel lago Cholana, posto sul versante occidentale
del monte Meru, sul confine Indo-Tibetano, che aveva intorno a sé
parecchi laghi e molti monasteri. La gente che viveva là cercava una
divinità per essere aiutata a traversare questi laghi. Alla fine, il
loro desiderio ebbe l’accoglimento divino. Sula riva destra del lago
Cholana vicino al villaggio di nome ‘Tar’ c’era una montagna. Un
giorno la gente vide su di essa ventuno figure della déa Tara, che era
entrata in esistenza da se stessa. Da allora, la grande dea fu sempre
là per aiutare ad attraversare i laghi. Essenzialmente, questa forma
di Tara è la sua forma originale. La radice ‘tri’ da cui si è
sviluppato il termine Tara significa proprio ‘attraversare a nuoto’.
Tutti i suoi popolari nomi in Tibet, in Cina, in Corea e in Giappone
hanno questo significato. Essa era particolarmente popolare nelle
isole, come Giava, forse per assistere le persone contro i mari
tempestosi. Nel Buddismo, quest’aspetto non era così significativo, ma
come ‘Tarini’ lei rendeva i suoi devoti capaci di ‘attraversare il
‘bhavasagara’ – l’oceano della vita’.
– Le ‘Bheda’ di Tara, ovvero le forme di Tara –
Benchè innumerevoli, le forme principali di Tara sono cinque: Sita o
Tara bianca, Shyama o Tara verde, Bhrakuti o Tara gialla, Ekajata o
Tara blu, e Kurukulla o Tara rossa. Tara bianca si manifesta in sette
forme, Tara verde in dieci, Tara gialla in cinque, Tara blu in due e
Tara rossa appena in una sola forma. Queste cinque forme si
riferiscono a cinque colori sacri connessi con i cinque
‘Dhyani-Buddha’, di cui queste forme sono le Shakti. Inoltre essi
rappresentano i cinque elementi cosmici. Inoltre due sue altre forme:
la Rajeshvari-Tara, identificata con Gauri o Vishvamata, e la
Pitha-Tara, con in mano un loto-blu, sono presenti nel ‘Sadhanamala’.
Comunque, il sacro Tara-mantra la commemora in undici forme. In un
altra classificazione ancora, le sue forme sono ventuno. Il Vajrasana
Tara-bianca, la sua prima forma, rappresenta Prajnaparamita. Di
solito, essa è a due braccia, con la destra tenuta in varada-mudra e
la sinistra in vitarka-mudra – la posizione dell’istruzione, inoltre
essa tiene in mano il gambo di un loto aperto. Essa generalmente ha un
terzo occhio, simbolico di conoscenza, ma a volte ne ha ben sette,
innestati sulle mani e sui piedi. Come Shakti di Amoghasiddha, tiene i
gambi dei loti in entrambe le mani. Il fiore di loto sostiene un
Vishvavajra – doppio fulmine. I testi la riportano come giovane
ragazza di circa sedici anni, splendente come la luna, vestita di
bianco e con brillanti gioielli. Nei Tantra, essa si manifesta con un
complesso bianco di Janguli, con due o quattro braccia, con il suo
indumento bianco, i gioielli bianchi e con a fianco dei serpenti
bianchi. Con le due mani originali suona un arpa, con le altre, la
destra è tenuta in abhaya, e con la sinistra tiene un serpente bianco.
I raggi della luna formano la sua ghirlanda.
Tara verde tiene in mano un loto blu totalmente o parzialmente chiuso.
Con la gamba destra ripiegata su un poggiapiedi composto da un loto
più piccolo essa è seduta su un trono di fiori di loto. A volte il suo
seggio è sostenuto da due leoni ruggenti. Essa tiene l’immagine di
Amoghasiddha sul suo copricapo. Quando è insieme ad Avalokiteshvara,
solitamente sta sulla sua destra. Un segno di ‘urna’ definisce la sua
fronte. Talvolta essa è accompagnata dalle sue stesse otto forme, ed
altre volte, da Ekajata e Marichi, o Janguli e Mahamayuri, le sue
manifestazioni. Quando è con Janguli e Mahamayuri, lei diventa
Dhanada, apportatrice di ricchezza. Poichè Dhanada ha quattro braccia,
con quelle superiori nelle usuali posizioni, e quelle inferiori che
portano un pungolo e un lasso. Alcuni testi la raffigurano a due
braccia, una che tiene un loto e l’altra che tiene un ‘varada’, il
segno dei tre occhi. Circondata da Shakti aventi vari colori, è
concepita con un volto sorridente, adorna di perle brillanti e
calzante scarpine ornate di gioielli.
Tara gialla, o Bhrikuti, la dèa con le ciglia aggrottate, è la forma
irata di Tara. Essa ha Amoghasiddha nel diadema, tiene nella sua mano
destra un varada e nella sinistra tiene un loto blu. È affiancata da
Marichi alla sua destra e da Ekajata nella sinistra. È concepita come
celestiale fanciulla con l’aspetto sempre-giovane e adorna di
gioielli.
Khadiravarni Tara e Vajra Tara sono le sue forme. Adorna di ogni sorta
di ornamenti, è rappresentata seduta in mezzo alle Matrika, madri
divine, avente otto braccia, con le mani di destra che portano un
vajra, una freccia, una conchiglia, un varada e quelle di sinistra, un
fiore di loto, un pungolo di diamante, un laccio e l’indice della
quarta mano che è sollevato verso il cielo, poi ha quattro facce, di
colore giallo, nero, bianco e rosso da sinistra a destra e tre occhi
in ogni faccia. E’ seduta su una luna disposta su un loto che
rappresenta l’universo. In un’altra più recente raffigurazione, essa è
seduta su un trono di diamante, ha il corpo di color rosso e quattro
Buddha sopra la sua testa.
Tara blu, o Ekajata, quella con un solo chignon, manifesta la Tara
feroce – ha l’aspetto truce e quindi è conosciuta come Ugra Tara. Come
è rappresentato nei testi, essa è in piedi nella posizione
dell’arciere, ha una bassa statura, una faccia; tre occhi e l’addome
protuberante, è feroce e terribile-a-vedersi, porta al collo una
collana di teste umane ed è adornata con un loto blu. Essa cavalca un
cadavere, adornata con otto serpenti e cinque mudra, ha gli occhi
rossi rotondi e la lingua sporgente, ed è anch’essa assai giovane.
Sempre molto felice, lei è risplendente a causa del suo selvaggio e
terribile sorriso, con le sue mascelle prominenti. Porta una pelle di
tigre intorno alla vita. Nelle due mani di destra porta una spada e le
forbici, in quelle di sinistra un loto blu ed un teschio. Il suo
chignon di capelli è marrone e la sua testa è adornata da Akshobhya.
La Tara rossa, o Kurukulla, ha quattro braccia e la pelle di color
rosso, è seduta su di un loto rosso e porta un vestito rosso. Una
delle sue mani di destra è tenuta nel mudra abhaya, mentre nell’altra
essa tiene una freccia, poi in una di quelle a sinistra tiene una
faretra fatta di gioielli, e nell’altra, una freccia fatta di germogli
di loto rosso, su un arco di fiori che giunge fino alle orecchie.
Molte delle forme di Tara sono semplicemente dei suoi attributi.
L’eccessiva enfasi le rende come se fossero sue bheda (forme). In
realtà, essa è dappertutto soltanto UNA. I suoi attributi sono
duplici, essendo pacifica ed irata, o quintuplici, a seconda dei suoi
cinque colori sacri, essendo pacifici il bianco ed il verde, ed irati
il rosso, il giallo ed il blù. Le forme pacifiche hanno espressioni
sorridenti, capelli lunghi ed ornamenti che si convengono ad un
Bodhisattva, mentre quelle irate, hanno tutte espressioni feroci che
ispirano timore. Molte delle forme di Tara – Janguli, Prajnaparamita,
Marichi, Bhrakuti, sono emerse nella tradizione come divinità
indipendenti ed hanno santuari dedicati ad esse.
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BIBLIOGRAFIA:
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Tom Lowenstein : The Vision of the Buddha
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Chhaya Haesner : India : Land of the Buddha
Prithvi Kumar Agrawal : Goddesses in Ancient India
Vasudeva S. Agrawal : Ancient Indian Folk Cults
Eva Allinger : The Green Tara as Saviouress from Eight Dangers in the
Sumtsek at Alchi
Shashi Bhushan, Dasgupta : An Introduction to Tantric Buddhism
M. K. Dhavalikar : The Origin of Tara
Edward Conze : Buddhism, its essence and development
Pratapditya Pal : Two Metal Images of Mahashri Tara, in Proceedings of
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Gill Farrer-Halls : The Feminine Face of Buddhism- Sadhanamala, ed.
Benoytosh Bhattacharya
Buddhist Women Across Cultures : ed. Karma Lekshe Tsomo
Buddhism, Sexuality, and Gender : ed. Jose Ignacio Cabezon
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