Tentare di trovarne uno dolce
(del venerabile Ajahn Viradhammo)
© Ass. Santacittarama, 2007. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Traduzione di Silvana Ziviani
(Basato su un discorso tenuto nel Giugno del 2002 durante il ritiro al
monastero Bodhinyanarama in Nuova Zelanda)
Comincio leggendovi un breve brano dal libro di Ken Wilber “No Boundary”.
[…]“Il momento di approfondimento e scoperta inizia quando vi sentite
consciamente insoddisfatti della vita. Contrariamente all’opinione
professionale prevalente, questa sorda insoddisfazione verso la vita non è
segno di una “malattia mentale”, né un sintomo di disadattamento sociale, né
un disordine caratteriale. Infatti, in questa scontentezza basilare verso la
vita e l’esistenza si cela l’embrione di una intelligenza in fase di
sviluppo, una intelligenza speciale sepolta generalmente sotto un poderoso
peso di ipocrisie sociali.
Una persona che comincia a sentire la sofferenza della vita, sta cominciando
contemporaneamente a risvegliarsi a realtà più profonde, a realtà più vere.
La sofferenza infatti riduce in pezzi il compiacimento con cui generalmente
guardiamo alle nostre finzioni riguardo alla realtà e in un certo senso ci
forza a ritornare vivi, a guardare attentamente, a sentire profondamente, a
entrare in contatto con noi stessi e con il mondo in una maniera che abbiamo
fino ad ora evitato.
E’ stato detto, e io ne sono convinto, che la sofferenza è una grazia. In un
certo senso, soffrire è anche un momento di letizia, poiché segna la nascita
dell’intuizione creativa. Ma solo in un senso speciale. Alcuni si aggrappano
alle sofferenze come una madre al proprio bimbo, trascinandolo come un peso
che non osano deporre. Essi non affrontano la sofferenza con
consapevolezza…”
Naturalmente il brano si riferisce a un ben nutrito americano della media
borghesia. Non sarebbe applicabile a un rifugiato palestinese a Hebron. Si
può comunque vedere che se uno può soddisfare i bisogni basilari della vita
e vive in una società civile, allora ha la possibilità di contemplare il
Dhamma. In questo caso la sofferenza, lo stress, e le varie forme di
scontentezza possono essere molto istruttive e fonti di progresso e
maturità. Cinicamente potremmo scherzarci su: “Un’altra esperienza di
crescita così e sarò morto”. La nostra parte più sincera tuttavia è animata
dall’aspirazione a liberare se stessi dall’illusione: a guardare
attentamente, a sentire profondamente, a entrare in contatto con noi stessi
e con il mondo in una maniera che abbiamo fino ad ora evitato.
Possiamo trovarci ad affrontare qualche tipo di paura che nel passato
abbiamo evitato, ma che alla lunga, per vari motivi, vogliamo ora osservare
e indagare, proprio per poterla capire. Si dà la possibilità all’intuizione
profonda di emergere e di realizzare verità più profonde. Queste realtà più
vere e profonde costituiscono la Retta Comprensione, che è il primo fattore
dell’Ottuplice Nobile Sentiero.
Vorrei contemplare una parte della recitazione che facciamo al mattino per
approfondire questa Retta Comprensione. Ci soffermeremo in particolare sui
cinque khandha.
La Retta comprensione è parte dell’intuizione di cui abbiamo bisogno per
intraprendere il progetto buddhista di liberazione. Allo stesso modo abbiamo
bisogno di una certa comprensione per iniziare qualsiasi progetto, che va
dal creare un giardino a costruire una nuova casa. Può darsi che all’inizio
la nostra comprensione sia piuttosto grezza (impariamo andando avanti), ma
abbiamo comunque l’idea del lavoro che richiede lo sviluppo della nostra
vita in linea con gli insegnamenti del Buddha. Dobbiamo capire la logica con
cui procedere.
Non è semplicemente questione di accumulare conoscenze o informazioni. La
conoscenza deve entrare nel cuore in modo da avere la giusta fede, la giusta
convinzione e la giusta intelligenza affinché la nostra vita si sviluppi in
modo benefico e liberatorio. Per far ciò dobbiamo comprendere l’insegnamento
riguardante i cinque khandha.
Nel libretto delle recitazioni quotidiane troviamo questi insegnamenti
spiegati in ogni particolare:
… la nascita è dukkha, la vecchiaia è dukkha e la morte è dukkha; il
cordoglio, la pena, il dolore, la tristezza e la disperazione sono dukkha;
stare con ciò che non ci piace è dukkha; la separazione da ciò ci piace è
dukkha; non ottenere ciò che si desidera è dukkha;Insomma, i cinque centri
di attaccamento sono dukkha.
Dukkha è tradotto con stress, sofferenza, dolore, angoscia, scontentezza. I
cinque punti di attaccamento sono i cinque khandha. I khan da sono i
componenti psico-fisici della personalità e dell’esperienza sensoriale in
genere. Secondo il buddhismo, quindi, il problema della sofferenza umana
risiede nell’attaccamento ai cinque khanda.
I khanda sono categorie dell’esperienza psico-fisica, definiti nei seguenti
cinque gruppi:
Rupa significa corpo; fenomeno fisico.
Vedana è il sentire: piacere (agio), dolore (stress) oppure né piacere né
dolore.
Sañña è la percezione, e si basa sulla memoria. Per esempio se parlo di
Ajahn Chah, molti di voi probabilmente lo conoscono, ma alcuni no. Se lo
conoscete avrete un certo tipo di percezione, ma la vostra percezione sarà
diversa dalla mia a causa delle diverse esperienze che abbiamo avuto con
Ajahn Chah. I nostri ricordi sono diversi per cui anche le percezioni sono
diverse.
Sankhara ha un significato molto ampio: formazione, composto, modellamento,
costruzione. Nel contesto dei cinque khan da lo si definisce formazione
mentale, tutte quelle costruzioni mentali che formano il processo del
pensiero e della riflessione, della pianificazione e preoccupazione, e così
via.
Infine viññana è la coscienza, la cognizione, l’atto di prendere nota dei
dati sensoriali e delle idee man mano che si presentano nella mente. Perciò
avremo la coscienza visiva, la coscienza olfattiva, la coscienza uditiva, la
coscienza gustativa, la coscienza tattile e la coscienza mentale.
Quando per la prima volta si sentono queste definizioni possono apparire un
po’ scoraggianti e confuse, ma dobbiamo passare dalla Retta Comprensione, in
modo che la prospettiva con cui osserviamo la coscienza sensoriale sia in
linea con gli insegnamenti.
Il problema è l’attaccamento ai cinque khan da Ci attacchiamo all’esperienza
sensoriale. Ci attacchiamo al corpo. Ci attacchiamo alle sensazioni. Ci
attacchiamo alle percezioni. Ci attacchiamo ai concetti e alle idee. Ci
attacchiamo alla coscienza sensoriale. Viceversa, il non attaccamento è un
modo per descrivere la liberazione, la libertà dalla sofferenza.
Andando avanti con la recitazione, troviamo:
rupupadanakkhandho (attaccamento alla forma)
vedanupadanakkhandho (attaccamento alla sensazione)
saññaupadanakkhandho (attaccamento alla percezione)
sankharupadanakkhandho (attaccamento alle formazioni mentali)
viññanupadanakkhandho (attaccamento alla coscienza sensoriale)
Upadana viene tradotto con attaccamento. Perciò abbiamo:
rupa + upadana + khandha = rupupadanakkhandha.
Questo è attaccamento all’aggregato del corpo, alla forma. La stessa
costruzione serve per gli altri quattro gruppi. Questi cinque aggregati
dunque – rupa (forma), vedana (sensazione), sañña (percezione), sankhara
(formazioni mentali) e viññana (coscienza sensoriale) sono i cinque centri
di attaccamento.
Per capire la Retta Visione o Retta Comprensione è importante capire questo
elemento basilare del progetto buddhista. Cercare una profonda realizzazione
spirituale nei khandha e nell’esperienza sensoriale è uno sbaglio. E’ come
cercare nel frigorifero un cibo caldo. E se non capite bene questo punto, se
non afferrate completamente questo concetto, potreste passare tutto il tempo
a cercarla ma guardando nel posto sbagliato. E’ come quella stupenda storia
di Nasrudin, il mistico sufi.
Nasrudin è seduto fuori da un negozio arabo di spezie. Sta seduto accanto a
un enorme cesto pieno di “peperoncini dinamite” rossi piccanti. Gli occhi di
Nasrudin sono pieni di lacrime mentre egli prende dal cesto un peperoncino
dietro l’altro e lo mastica. Gli amici che passano vedono Nasrudin che suda
e piange . “Nasrudin, che stai facendo. Stai piangendo e sudando. Perché
mastichi quei peperoncini?”. Nasrudin risponde: “Cerco di trovarne uno
dolce”.
Ritorniamo al libretto delle recitazioni e consideriamo l’insegnamento sul
non attaccamento ai khandha, esposto tradizionalmente in pali:
Rupam aniccam (la forma è impermanente)
vedana anicca (la sensazione è impermanente)
sañña anicca (la percezione è impermanente)
sankhara anicca (le formazioni mentali sono impernanenti)
viññanam aniccam (la coscienza sensoriale è impermanente).
E prosegue:
rupam anatta (la forma è non-sé)
vedana anatta (la sensazione è non-sé)
sañña anatta (la percezione è non-sé)
sankhara anatta (le formazioni mentali sono non-sé)
viññana anatta (la coscienza sensoriale è non-sé).
Gli insegnamenti sull’impermanenza e il non-sé sono indubbiamente di
primaria importanza per capire il Buddha-Dhamma. Anicca (impermanenza e
incertezza) sembra piuttosto evidente. Tutti possiamo vedere i cambiamenti,
non vi pare? O almeno pensiamo di vedere cosa ci vuol dire il Buddha. Forse
non afferriamo profondamente il concetto, ma abbiamo sentore di cosa
potrebbe essere.
Anche dukkha è molto evidente, poiché vediamo in giro un’infinità di stress
e sofferenza. Di nuovo la nostra comprensione forse non è così profonda come
quella del Buddha, ma possiamo convenire con questo aspetto
dell’insegnamento.
Ma anatta, quella è difficile. Uno degli errori più comuni riguardo
all’insegnamento
di anatta è che non c’è un sé, sottintendendo così che non c’è niente. Ma
naturalmente io sono cosciente. Se mi dai un calcio, sono io a provare
dolore non tu. C’è una storia su un monaco che dice al suo maestro che se
non c’è un sé allora niente conta più. Il maestro allora gli dà una botta in
testa e quello strilla dal dolore. “Ehi, mi fai male”. Il maestro risponde:
“Hai detto che niente conta più. Qual è allora il problema ora?”
L’insegnamento su anatta non dice che non c’è niente. Non niente… ma
non-sé. La forma è non-sé, la sensazione è non sé, la percezione è non sé,
le formazioni mentali sono non sé, la coscienza è non sé. Nei khandha non
c’è
il sé. Allora ci chiediamo: “Chi dunque sente il dolore?. Se mi rompo la
gamba, il dolore è mio non tuo. Non capisco”. Proprio così. Non capiamo. Se
fosse facile da capire non avremmo bisogno di un Buddha che ci offre le sue
intuizioni per aiutarci. La realizzazione del Buddha fu molto profonda, per
cui non c’è da meravigliarci se, di fronte ad alcune parti
dell’insegnamento,
diciamo: “Non ci arrivo”. E’ qui che dobbiamo investigare e contemplare gli
insegnamenti, studiare i testi, la mente e il corpo fino a vedere le cose
come le ha viste il Buddha. Capire anatta vuol dire capire l’attaccamento e
il non attaccamento. E’ il midollo dell’albero della bodhi.
Per approfondire la comprensione di anatta semplifichiamo la nostra
prospettiva sugli avvenimenti, osservando le nostre esperienze come
sensazioni fisiche, sensazioni, percezioni, strutture mentali, fenomeni
sensoriali. In altre parole, osserviamo la natura mutevole dei khandha. Se
perdiamo questa prospettiva obiettiva, saremo facilmente afferrati dalla
trama del racconto o della storia che ogni situazione vissuta genera. Per
esempio non c’è solo una sensazione di fastidio causata da qualche
contrattempo, ma ci sono anche tutte le storie, giustificazioni, pensieri,
rancori, sensi di colpa che proliferano da questa energia di fastidio. Tutto
avrà un forte sapore di un ego di fronte agli altri. Questo è attaccamento
bello e buono.
Per praticare il non attaccamento, osserviamo le sensazioni fisiche, che
sono condizionali al fastidio. Osserviamo i pensieri che sono condizionali
al fastidio. E, più importante, osserviamo la brama che è condizionale al
fastidio. Potrebbe essere una brama che si manifesta con il desiderio di far
del male a qualcuno con delle parole cattive, o il senso di colpa o una
autocritica spietata.
Indulgendo nella trama della storia, il fastidio diventerà un problema
personale. Tuttavia, quando osserviamo le emozioni, quali l’irritazione,
come oggetti mentali invece che considerarle come assolute realtà a se
stanti, ci portiamo verso la Retta Comprensione e il non-attaccamento.
I khandha sono delle condizioni mutevoli che vengono e vanno, che nascono e
muoiono. Ma non è tutto qui, comunque. C’è il non-creato, il non-originato,
il non-formato, Nibbana, il senza-morte. La realizzazione del Nibbana, o
senza-morte, è il traguardo del buddhismo. Il modo per realizzare questo
scopo è attraverso il non-attaccamento ai cinque khandha. Quindi vediamo che
il non-attaccamento ha significati molto profondi che diventano chiari man
mano che si prosegue sulla via. La comprensione che un novizio ha del
lasciare andare cambia e diventa più sottile e più precisa col passare degli
anni.
Perché ci lasciamo prendere completamente dai cinque khandha: nei pensieri,
nelle emozioni, passioni, relazioni, corpo e tutto il resto? Quando
cerchiamo di ottimizzare le esperienze piacevoli e minimizzare quelle
spiacevoli ci lasciamo irretire dai nostri stessi desideri. E i nostri
desideri sono puntati sui khandha. E’ questa l’attrazione magnetica che
condiziona l’attaccamento. Riferendoci alle Quattro Nobili Verità vediamo
che nella seconda abbiamo la causa della sofferenza che è l’attaccamento al
desiderio. La Terza Nobile Verità dice che la fine della sofferenza sta
nell’abbandono
del desiderio. Il desiderio riguarda il tentativo di mantenere questi
khandha sempre piacevoli, felici, confortevoli, gentili o buoni, o qualsiasi
altra cosa. Il desiderio è questa energia che continua a fluire dal cuore,
dalla mente, sempre cercando di riorganizzare o di sbarazzarsi di qualcosa,
di inventarsi o possedere qualcosa.
Il desiderio può essere volto verso il futuro: cercare di avere successo,
potere, di diventare magro, bello; sognare di avere il partner perfetto;
preoccuparsi di perdere il lavoro, e così via. Oppure può essere fissato sul
passato, ripetendo in continuazione un incidente penoso, riportando a galla
vecchie ferite con rancore e senso di rivincita, oppure rimanendo ancorati
nostalgicamente ai bei tempi andati. Può essere una cosa violenta o da poco;
prende molte figure e forme, ma la sua caratteristica è la mancanza di pace.
Se la nostra attenzione viene occupata da questa energia di scontentezza,
non siamo più in grado di portare avanti una indagine spirituale. Questa è
la lotta con il desiderio che si fissa sui cinque khandha; questo è il
coinvolgimento con i khandha.
Quando la nostra attenzione è assillata da cose materiali, da sensazioni,
percezioni, quando è invischiata con la coscienza sensoriale, questa stessa
ossessione è un sintomo di attaccamento. Finché saremo così assillati,
saremo anche distratti dalle esperienze che vanno e vengono, saremo
preoccupati dalle esperienze mutevoli, ossessionati dall’essere nati e dal
dover morire. Questo preclude ogni possibilità di notare realtà più
profonde.
Per capire il progetto buddhista dobbiamo capire cosa significa non
attaccamento. I buddhisti certe volte asseriscono che non devono attaccarsi,
ma non è chiaro a che cosa si riferiscono. E poi, a causa di una errata
comprensione, si sentono colpevoli di provare emozioni negative, mentre
invece dovrebbero semplicemente osservare le negatività che vanno e vengono
come è naturale per una mente condizionata. La pratica meditativa che
facciamo ci aiuta ad allenarci a essere semplici testimoni delle cose che
sorgono e passano. Per esempio, osservare il respiro può essere un esercizio
in cui pazientemente osserviamo il cambiamento e scopriamo o riportiamo alla
mente il centro fermo della testimonianza. In questa pratica, la presenza
mentale (testimoniare o osservare) è più importante dell’oggetto osservato.
La presenza mentale ha la precedenza sull’oggetto di consapevolezza, dato
che l’oggetto di consapevolezza non è che una parte dei khandha.
Sottolineiamo la conoscenza piuttosto che l’oggetto.
Fate il paragone tra questo atteggiamento e il solito comportamento mondano
che viene calamitato e diventa dipendente dalla qualità dell’esperienza.
L’oggetto
dell’attenzione diventa la cosa più importante e questa importanza è guidata
dalla brama. La persona mondana cerca di ottenere esperienze piacevoli, di
liberarsi di alcuni aspetti dell’esperienza, viene ossessionato da alcune
idee e si perde sognando questo o quello.
La bramosia ci spinge sempre verso gli oggetti, sia oggetti mentali che
emotivi o materiali. E questo perché si è condizionati dalle memorie passate
di dolore e piacere, vagando con l’attenzione qui e là, alimentandola con
l’energia
della paura e del desiderio. Tutto ciò crea tensione nella mente: attrazione
e repulsione, piacere e dispiacere. Nella pratica della presenza mentale e
chiara comprensione cerchiamo di osservare tutto questo tira e molla del
mondo, senza lasciarci adescare.
Consideriamo un altro pratico esempio. Mi è stato detto che la mia ditta sta
riducendo del dieci per cento il numero dei dipendenti e può darsi che perda
il lavoro. Naturalmente questo mi procura ansia. La sento sia fisicamente
che nel cervello, poiché i pensieri sono condizionati dall’ansietà. Come
farò con il mutuo? Dovrò fare degli straordinari? E così via. A livello
sociale devo affrontare gli imprevisti ed escogitare delle soluzioni. Ma
dopo che l’ho fatto continuo a provare ansia.
Se però riesco ad osservare questa emozione come uno dei khandha, come
tensioni fisiche che si muovono e si alternano nella coscienza, se riesco a
osservare come un testimone l’ansietà invece che essere assillato dai
pensieri ansiosi, allora avrò una certa libertà e spaziosità. Questo è il
primo passo del non attaccamento. Noto l’ansietà come un oggetto, invece di
essere io il soggetto dell’ansia.
C’è differenza tra essere una persona ansiosa e vedere l’ansietà come un
oggetto mentale.
Quando sorge l’ansietà, nasce anche il desiderio di non essere ansiosi. E
questo è abbastanza naturale. Ma nella pratica del non attaccamento, anche
questo desiderio viene osservato come un’altra manifestazione dei khandha.
Testimoniamo la presenza di questo desiderio, del desiderio di sicurezza e
di un futuro felice. Se si fa attenzione al desiderio invece che andare in
cerca di distrazioni o compensazioni che rimpiazzino l’ansia, allora stiamo
praticando il non attaccamento. Comprendere che l’ansietà è un sankhara;
comprendere che è anicca, dukkha, anatta, comprendere che è solo una
condizione che sorge, che rimane per un poco, che non è un problema
personale e che non vale la pena attaccarvisi: questa è la vera arte del
lasciar andare.
Non è qualcosa che dovete credere, è qualcosa che dovete comprendere e
applicare alla vita quotidiana. Non è un sistema di credenze. Questa pratica
ha una meta, nota come liberazione dai khandha. Quindi è un progetto; è un
magnifico hobby. Se volete passare il tempo praticando un hobby, potete
benissimo praticare la liberazione. C’è parecchio lavoro da fare.
Il desiderio è la calamita che ci attira verso i khandha. Conoscere le
limitazioni dei khandha e quindi le limitazioni del desiderio ci dà una
prospettiva di vita in linea con la Retta Comprensione. Allora il desiderio
va bene. Non c’è niente di buono o cattivo nel desiderio, ma conoscere le
sue limitazioni ci impedisce di illuderci attratti da quella calamita.
Possiamo berci il nostro succo di frutta e goderci il tepore e la luminosità
di una giornata di sole, ma realizziamo che la liberazione non sta
nell’oggetto,
nel succo di frutta o nel bel tempo. Non sta nell’esperienza fine a se
stessa; non sta nei khandha.
Lo scopo della rinuncia sta nel non seguire i comandi del desiderio e
nell’abbandonare
la credenza di trovare realizzazione in un oggetto di esperienza. Quando
rinunciamo a questo movimento verso i khandha, che rimane? Se non
perseguiamo esperienze fisiche e sensazioni di piacere, dolore e
indifferenza; se non perseguiamo percezioni, pensieri, né idee, né emozioni;
né oggetti visivi o uditivi, né odori né gusti, né sensazioni fisiche né
fenomeni mentali, che rimane? Andiamo in rovina? Che c’è d’altro? C’è
qualcos’altro? Oppure non c’è più niente?
Ciò che rimane è la conoscenza delle cose così come sono, o semplicemente
essere consapevoli. Non sembra gran cosa, ma se diamo fiducia alla
consapevolezza troveremo in essa la soluzione dei nostri più profondi
desideri. La consapevolezza è la via del Senza-Morte.
Quando seguiamo il nostro desiderio cercando di ottimizzare il piacere e
minimizzare il dolore, la nostra attenzione è occupata con i khandha.
L’attenzione
sta sempre fuori, lontana dal centro fermo della conoscenza. Se invece
seguiamo la via della consapevolezza, avremo un atteggiamo ricettivo
piuttosto che di controllo, di dominio o di manipolazione.
Il progetto buddhista si basa sull’attendere, sul lasciar andare piuttosto
che sul divenire, sull’ottenere o sullo sbarazzarci di qualcosa. La rinuncia
è basata su questo tipo di comprensione. Necessita coraggio, pazienza e la
volontà di lasciare che la vita si esprima a modo suo. Questo, a sua volta,
implica amore e rispetto per la vita in tutte le sue manifestazioni.
La Retta Visione guida i nostri sforzi sulla Via e tiene il nostro
intelletto in armonia con il Dhamma. Una volta capito tale progetto – basato
sul lasciare andare dei khandha – ci sarà però ancora tanto lavoro da fare.
Ma almeno sarà molto più chiaro il modo in cui svolgerlo e che cosa fare. Il
puntare sui khandha per uscire dalla sofferenza è destinato a fallire. La
liberazione dal dolore non può realizzarsi inseguendo il desiderio.
Ma allora il mio desiderio di liberarmi dalla sofferenza? Non è anch’esso
desiderio? Diciamo che ci sono sagge aspirazioni e desideri stupidi.
Sagge aspirazioni riguardano il desiderio di libertà per noi e per gli
altri. Vogliamo vivere in una società onesta e giusta. Perciò le sagge
aspirazioni si occupano di ciò che succede nel mondo: la nostra vita
sociale, i nostri rapporti, i doveri, la parte espressiva della vita, gli
aspetti culturali e gli interessi culturali. Vogliamo che l’ambiente venga
protetto in modo da avere acqua pulita da bere e aria sana da respirare.
Questi sono desideri salutari e naturali. Un buon governo, bellezza
artistica, generale sollecitudine per la salute, educazione morale e
spirituale, e tutte le altre cose positive che ci vengono in mente. Questo
tipo di desideri e aspirazioni per noi, per la nostra famiglia e per la
società sono salutari e fanno parte degli insegnamenti sociali del Buddha.
Tali insegnamenti includono l’etica, l’altruismo, i giusti rapporti, la
comunicazione appropriata e altre linee guida che ci aiutano nelle scelte
che dobbiamo fare durante i giorni della nostra vita. Desideriamo essere
liberi dalla sofferenza e lo auguriamo anche agli altri. Questi suggerimenti
dati nell’insegnamento ci guidano lungo la via del desiderio intelligente.
Parallelamente a questi insegnamenti sociali, abbiamo anche gli insegnamenti
interiori e tra questi ultimi un posto assai importante lo hanno la
comprensione dell’attaccamento e del lasciar andare i khandha. Riflettiamo
sugli insegnamenti contemplativi riguardanti il nostro mondo interiore e il
lavorio della coscienza. Parte di questa pratica è anche osservare la vita
come una corrente di eventi coscienti o, meglio, come una corrente di eventi
khandha. Il compito è osservare questa corrente di coscienza con la saggezza
del non attaccamento.
Questi due aspetti delle parole del Buddha – quello sociale e quello
interiore – definiscono la Via buddhista. A livello sociale, dobbiamo
tentare di raddrizzare le cose. Se c’è immoralità ci occupiamo di quella. Se
c’è fame e carestia ci occupiamo di queste. Cerchiamo di essere altruisti e
aiutare il mondo nel modo migliore possibile, a seconda della nostre
capacità e risorse economiche. Gli amici spirituali e i compagni ci saranno
di incoraggiamento e sostegno e svilupperemo atteggiamenti e capacità che,
con ogni probabilità, renderanno gioiosa la nostra vita.
Ma al livello più profondo di comprensione, tuttavia, sappiamo che non c’è
alcuna condizione esterna o relazione che sia definitivamente stabile e
attendibile. Sono tutti movimenti dei khandha, all’interno dei quali non vi
è nessuna perfezione utopistica.
Quindi la Retta Visione implica anche la comprensione di un giusto modo di
vivere unitamente alla saggezza del lasciar andare. Non è il lasciar andare
che rigetta, reprime o aliena, ma piuttosto un lasciar andare che abbia una
qualità di empatia verso la vita, ma che non si lasci illudere
dall’attaccamento
ai cambiamenti della vita.
Questo vuol dire comprendere l’attaccamento ai cinque khandha. Li si può
chiamare i cinque khandha, il processo psico-fisico, l’esperienza della
mente-corpo, o anche vita. Se si muove, non aggrappatevi ad essa. Lasciate
andare e rispondete alla vita con empatia e generosità piuttosto che con
bramosia, attaccamento, e con tutto lo stress che questi comportano. Questa
via del lasciar andare i khandha diventa allora una forma d’arte, l’arte di
vivere rettamente.
Ajahn Viradhammo, nato in Germania da famiglia lettone ma canadese di
adozione, è monaco della tradizione della foresta dal 1974. E’ stato uno dei
primi discepoli occidentali di Ajahn Chah e ha fondato il monastero
Bodhinyanarama in Nuova Zelanda. Dal 2006 si occupa nel fondare un nuovo
monastero in Canada, vicino ad Ottawa (www.tisarana.ca).
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