Tenzin Gyatso, Quattordicesimo Dalai Lama del Tibet 2

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Tenzin Gyatso, Quattordicesimo Dalai Lama del Tibet 2

di John Avedon

(seconda parte)

1.
Valori Religiosi e Società Umana

In un certo senso, con la presente generazione, abbiamo raggiunto un
alto livello di sviluppo, ma nello stesso tempo ci troviamo a dover
affrontare molti problemi. Alcuni di questi problemi sono dovuti a
eventi esterni o naturali e non possiamo evitarli; altri invece sono
dovuti ai nostri difetti mentali, a un’incompletezza interiore – fonte
d’ulteriori sofferenze e problemi. Il solo sviluppo materiale non sarà
sufficiente se non sviluppiamo nella nostra mente una giusta
attitudine verso la società e il genere umano. Questo è chiaro.
Tuttavia, se adottiamo una giusta attitudine, potremo evitare quella
parte di problemi creati dall’uomo.
Il punto fondamentale è la compassione; l’amore per gli altri, il
prendersi a cuore la loro sofferenza, un minore egoismo. Io credo che
il pensiero pieno di compassione sia la cosa più preziosa. Solo noi,
in quanto esseri umani, siamo in grado di svilupparlo nei nostri
cuori. Se abbiamo un buon cuore, un cuore pieno di calore, ci
sentiremo a nostra volta felici e soddisfatti e anche i nostri amici
lo saranno. In questo modo forse si potrà arrivare a godere di
un’atmosfera amichevole, e di una vera pace tra città e città, tra
nazione e nazione, tra continente e continente.

La domanda è come sviluppare la compassione? Fondamentalmente la
compassione è in relazione con la consapevolezza dell’io. A livello
convenzionale esiste un “io”. “io voglio, io non voglio”. Questa è
l’esperienza di ciascuno di noi. Basandoci su questa consapevolezza
naturalmente desideriamo la felicità e non vogliamo la sofferenza.
Inoltre, abbiamo anche il diritto d’avere la felicità e d’evitare la
sofferenza. Dunque così, come io stesso ho questa consapevolezza e
questo diritto, anche gli altri l’hanno. La differenza è che quando
parliamo dell’io” si tratta di una sola persona, mentre gli altri sono
un numero infinito e questo lo si può vedere con chiarezza.
Immaginiamo da un lato il nostro “io”, che finora si è concentrato
solo su motivazioni egoistiche, mettiamolo vicino di fronte a noi;
dall’altro lato immaginiamo gli altri, un numero infinito di esseri e
il nostro sé che diventa una terza persona e che fa da spettatore. In
questo modo possiamo vedere che il sentimento che desidera la felicità
e non vuole la sofferenza è uguale sia per noi che per gli altri: è
assolutamente identico. Anche il diritto ad avere la felicità è
identico. Per quanto questa persona egoisticamente motivata sia ricca
o famosa, è solo “uno” di numero. Per quanto poveri siano gli altri,
il loro numero è infinito. Naturalmente molte persone sono più
importanti di una sola. Così, vedete, è una cosa assolutamente
scorretta usare gli altri per i propri scopi e in questo modo non sarò
mai felice, anche se ne ho la possibilità. Tuttavia, se contribuisco
al benessere comune, e cerco di rendermi utile per quel che posso,
questo atteggiamento sarà fonte di grande gioia per me e per gli
altri.

Con questa attitudine si può sviluppare vero amore e vera compassione
per gli altri, che si possono estendere persino al nostro nemico.
L’amore come viene comunemente inteso è solo attaccamento. Con
“vostra” moglie, “vostro” marito, i “vostri” figli o genitori avete
delle ragioni per amarli e dite li amo perché sono “mia” madre, “mio”
padre, i “miei” figli.

Questo tipo di amore è imperniato su una motivazione egoistica, mentre
il suo opposto è il chiaro riconoscimento dell’importanza degli altri.
Se riusciamo a sviluppare la compassione partendo da questo punto di
vista, allora questa potrà comprendere anche il nostro nemico. Per
poter generare quest’atteggiamento altruistico, dobbiamo avere
tolleranza e pazienza perché senza tolleranza è difficile svilupparlo.
Ora, chi ci dà questa occasione? Ce la dà il nostro nemico. Il nostro
nemico ci dà la possibilità d’imparare a essere tolleranti, mentre il
nostro maestro e i nostri amici non possono farlo. Perciò il nostro
nemico ci è effettivamente di grande aiuto ed è, in effetti, il nostro
migliore amico, il nostro migliore maestro.

Se riuscirete a pensare in questo modo, se riuscirete a coltivare
questo tipo d’attitudine, sperimenterete un’infinita compassione per
tutti gli esseri.
In base alla mia personale esperienza, le più grandi soddisfazioni
vengono dai periodi più difficili della vita di ciascuno. Se si segue
una strada facile e tutto procede bene il giorno in cui ci si trova di
fronte a dei problemi, ci si sente depressi. Invece è soprattutto
attraverso le difficoltà che s’impara, che si sviluppa forza
interiore, coraggio e determinazione. Allora, ancora una volta chi vi
dà l’occasione per tutto questo? Il vostro nemico.

Questo non significa che si deve obbedire o inchinarsi al nemico.

A volte, a causa del comportamento del nemico, si può essere costretti
ad agire con forza, potrebbe essere necessario farlo senza perdere
interiormente la calma e la compassione, è possibile.

Qualcuno potrebbe pensare “Ora il Dalai Lama sta dicendo cose senza
senso”, ma non è così, perché mettendo in pratica questi consigli
potrete constatarlo attraverso la vostra esperienza personale.

Io chiamo “religione” il tipo d’amore che ho appena descritto, questo
tipo di compassione che è la vera essenza della religione. A questo
livello non c’è quasi nessuna differenza tra Buddhismo, Cristianesimo
o qualunque altra fede. Tutte le religioni insistono sull’importanza
di migliorare gli esseri umani, di perfezionare l’uomo. La fratellanza
e l’amore sono sentimenti comuni a tutte le religioni. Credo quindi –
come dico sempre agli altri Buddhisti – che la questione del Nirvana
non sia la cosa più immediata. Non c’è fretta. Comunque se nella vita
quotidiana ci si comporta in modo buono, onesto, compassionevole e
meno egoista, allora automaticamente questo porterà al Nirvana. Al
contrario, se si parla molto di Nirvana e si trascura la pratica
quotidiana, allora si raggiungerà un tipo insolito d’illuminazione, ma
non quella giusta – perché in realtà quella pratica quotidiana non
esiste. Si devono quindi integrare quest’insegnamenti positivi
alla vita di tutti i giorni, non ha importanza che crediate in Dio, in
Buddha oppure no. Si deve vivere una vita eticamente buona perché il
buon cibo, i bei vestiti e la bella casa non sono sufficienti, è
necessaria una buona motivazione.

Ora, nel mondo d’oggi, alcuni potrebbero pensare che la religione sia
adatta a quelli che vivono appartati in luoghi solitari e che non ci
sia molto bisogno di religione negli affari o nella politica. La mia
risposta è no. Tutte le azioni eccetto alcune di secondaria importanza
sono fondate su delle motivazioni. Penso che, se fate della politica,
e avete una buona motivazione, diverrete un politico onesto. Senza una
tale motivazione, quello che farete verrà considerato “sporca”
politica.
Di per sé, la politica è necessaria per la soluzione dei problemi
umani, non è una cosa negativa. Ma quando la politica è fatta da
persone egoiste e ignoranti, allora manca qualcosa. Non solo nella
politica, anche nella religione è così. Se pratico con una motivazione
incentrata sul mio ego, allora la religione diventa negativa. Vedete
quindi che la motivazione è la cosa più importante. Perciò la mia
pratica è semplicemente l’amore, il rispetto per gli altri, l’onestà
che sono insegnamenti che investono il campo dell’economia, quello
degli affari e qualsiasi campo.

Se osservate a fondo la società odierna, vedrete che ci sono molti
problemi. Interiormente quasi ognuno di noi prova un senso
d’inquietudine e questa sensazione non aiuta a risolvere i propri
problemi.

Ora non sto criticando gli altri, ma quando si possiede una vera e
durevole pace interiore, l’ira e l’odio non potranno mai esistere.
D’altra parte, è impossibile aiutare gli altri se interiormente si ha
una motivazione egoistica. Potremo parlare a lungo di pace, d’amore,
di giustizia, ma quando certe cose ci riguardano personalmente, allora
dimentichiamo del tutto questi discorsi e diciamo: “È necessario fare
la guerra – è necessario sopprimere gli altri”. Quando si sentono dire
queste cose, è chiaro che manca qualcosa.

Io penso semplicemente che allo stato attuale, dove tutto dipende dal
denaro e dal potere, e dove non ci si interessa molto del reale valore
dell’amore, se noi esseri umani perdiamo il senso del valore della
giustizia, della compassione, dell’onestà, allora in futuro ci
troveremo di fronte a maggiori difficoltà: ci saranno maggiori
sofferenze e problemi. È difficile ma vale assolutamente la pena di
tentare. Dobbiamo tentare con tutte le nostre forze, senza
preoccuparci del risultato. Anche se non avremo successo in questa
vita non importa, avremo comunque cercato di migliorare la società
umana sulla base dell’amore. Questa è la mia opinione, il mio pensiero
sulla relazione tra valori religiosi e società umana.

La Sua Vita
J.A.: Qual’è stata la sua prima sensazione quando venne riconosciuto
come il Dalai Lama?

D.L.: Ero molto felice. Mi piaceva molto. Anche prima d’essere
riconosciuto, dicevo spesso a mia madre che sarei andato a Lhasa. Mi
mettevo a cavalcioni sul davanzale della finestra, nella nostra casa,
facendo finta di cavalcare verso Lhasa. A quel tempo ero un bambino
molto piccolo, ma ora ricordo chiaramente che avevo un grande
desiderio d’andare a Lhasa. Un’altra cosa alla quale non ho accennato
nella mia autobiografia (1) è che, dopo la mia nascita, due corvi
vennero a posarsi sul tetto della nostra casa. Arrivavano ogni
mattina, si fermavano per un po’, e poi se ne andavano. Questo è
particolarmente interessante perché la stessa cosa è successa in
occasione della nascita del Primo, Settimo, Ottavo e Dodicesimo Dalai
Lama. Dopo la loro nascita, apparve una coppia di corvi che sostò
qualche tempo. Nel mio caso, nessuno prestò attenzione a questo fatto.
Tuttavia recentemente, forse tre anni fa, mentre stavo parlando con
mia madre, si è ricordata di questo fatto. Li aveva visti arrivare al
mattino, ripartire dopo un po’ – e tornare il mattino seguente. Ora,
la sera dopo la nascita del Primo Dalai Lama, alcuni banditi avevano
fatto irruzione nella casa della sua famiglia e i genitori erano
scappati abbandonando il bambino. Quando tornarono il giorno seguente,
chiedendosi cosa fosse accaduto a loro figlio, trovarono il bambino in
un angolo della casa, un corvo stava davanti a lui e lo proteggeva.
Più tardi, quando il Dalai Lama crebbe e sviluppò la sua pratica
spirituale, attraverso la meditazione stabilì un diretto contatto con
la divinità protettrice Mahakala (2). A quel tempo Mahakala gli disse:
“Chi come te sostiene l’insegnamento Buddhista ha bisogno di un
protettore come me. Io ti ho aiutato proprio nel giorno della tua
nascita”. Dunque possiamo vedere che esiste una precisa connessione
tra Mahakala, i corvi e i Dalai Lama.

C’è un’altra storia a questo proposito: una volta gli scolari di
Nalanda (3), la grande Università Buddhista, vennero sfidati da
Ashvaghosha, un famoso maestro Hindu, a sostenere un dibattito. A quel
tempo, la tradizione voleva che chiunque fosse sconfitto in un
dibattito dovesse convertirsi alla fede del vincitore. Ora Nalanda era
la più importante università Buddhista, se fosse uscita sconfitta dal
dibattito l’insegnamento avrebbe sofferto un danno grave. Gli allievi
erano talmente preoccupati che decisero di mandare a chiamare
Nagarjuna (4), il più grande erudito di quel tempo. Tuttavia Nagarjuna
era molto lontano, nel sud dell’India, troppo lontano perché un uomo
gli potesse portare il messaggio. Poiché non c’era tempo, decisero di
sottoporre il caso a Mahakala. Pregarono e eseguirono una elaborata
cerimonia rituale, poi deposero la lettera che avevano scritto davanti
alla statua di Mahakala, allora Mahakala – attraverso la statua emanò
un corvo che prese la lettera e partì per il sud dell’India. Quando
Nagarjuna ricevette la lettera, capì che Nalanda era in una situazione
disperata e decise che il suo discepolo Aryadeva sarebbe stato il
migliore per dibattere con Ashvaghosha.

Quindi preparò Aryadeva impegnandolo in un serrato dibattito. Ad un
certo punto, Aryadeva si lasciò trascinare e si comportò in modo
leggermente orgoglioso con il proprio maestro. Nagarjuna gli disse di
non preoccuparsi, ma che a causa di ciò sarebbe sorta una
“originazione dipendente” (5) negativa. Nel viaggio verso Nalanda,
Aryadeva fu assalito da un gruppo di banditi e perse un occhio.
Nonostante ciò, arrivò a Nalanda e batté con successo Ashvaghosha.
Ashvaghosha divenne allora discepolo di Nagarjuna e in seguito scrisse
i propri libri.

J.A.: La connessione con il corvo è dovuta al fatto che e nero come
Mahakala, o c’è qualcosa nel corvo in sé stesso? Da allora, sono
apparsi altri corvi nella sua vita?

D.L.: In realtà i corvi non mi piacciono. I corvi di solito sono molto
crudeli con gli uccelli piccoli perché li disturbano sempre e li
attaccano anche. Un’altra cosa che mia madre ricorda molto chiaramente
è che, poco dopo il mio arrivo a Lhasa, dissi che i miei denti erano
in una scatola in un certo padiglione del Norbulinka. Quando la
scatola venne aperta, venne trovata una serie di denti del Tredicesimo
Dalai Lama. Avevo indicato la scatola dicendo che i miei denti erano
là dentro, ma adesso non ricordo affatto questo episodio. I nuovi
ricordi associati a questo corpo sono più forti e il passato è
diventato distante e vago. A meno che io non faccia uno sforzo preciso
per sviluppare quel tipo di memoria, non lo ricordo.

J.A.: Si ricorda della sua nascita o di quando si trovava nel ventre materno?

D.L.: In questo momento non ricordo. Non ricordo nemmeno se me lo
ricordavo al tempo in cui ero un bambino piccolo. Comunque forse c’era
un piccolo segno esteriore: i bambini di solito nascono con gli occhi
chiusi, io sono nato con gli occhi aperti. Questo potrebbe essere un
piccolo segno di un chiaro stato mentale mentre ero nel ventre.

J.A.: Quando era un ragazzino, cosa provava ad essere trattato dagli
adulti come una persona importante? Era apprensivo o addirittura
spaventato da tanta riverenza?

D.L.: I Tibetani sono gente molto pratica. I Tibetani anziani non mi
avrebbero mai trattato in quel modo. Comunque avevo molta fiducia in
me stesso. Quando mi avvicinai per la prima volta a Lhasa, nella piana
di Debuthang, l’oracolo di Nechung venne per verificare ancora una
volta se ero l’uomo giusto. Con lui venne un ghesce del collegio
Loseling (6) del monastero di Drepung, molto anziano e molto
rispettato in quanto altamente realizzato (7). Era profondamente
interessato a scoprire se io fossi o meno la persona giusta.
Commettere un errore nel ritrovamento del Dalai Lama sarebbe stato
molto pericoloso. Questo Ghesce era un religioso, non un uomo di
governo. Venne nella tenda dove mi trovavo durante un’udienza di
gruppo, e stabilì che ero indiscutibilmente l’uomo giusto. Così,
sebbene ci fossero molte persone rispettabili e anziane, ad
esaminarmi, si direbbe che io abbia recitato bene la mia parte e che
le abbia convinte tutte (ride). Non mi sono mai sentito a disagio
nella mia posizione. Gharles Bell (8) riferisce che reagivo a tutto
con completa naturalezza. Una sera ho voluto andare a vedere mia madre
che era venuta a Lhasa con il resto della mia famiglia. Ero nella
tenda del Reggente. Davanti all’ingresso c’era una guardia del corpo
molto robusta. Era sera, al tramonto, e quest’uomo aveva un occhio
malridotto, ricordo che allora ho avuto paura e terrore di uscire
dalla tenda. Ci sono molte storie e avvenimenti, quando si parla di
rinascita.

J.A.: Potrebbe descrivere i sentimenti che ha provato per i suoi
maestri. Sembra che abbiano avuto un ruolo importante nella sua
educazione.

D.L.: Niente di particolare. Quando ragazzo incontrai per la prima
volta Ling Rimpoce (9), ne fui un po’ spaventato. Crescendo, il timore
è gradualmente scomparso e il rispetto ha preso il suo posto. Ecco,
non è molto.

J.A.: Si sentì cambiato, tra i 16 e 18 anni, dopo l’assunzione del
potere temporale?

D.L.: Sì cambiai… un poco. Ho trovato molta gioia e molto dolore in
questo contesto e per la crescita, guadagnando maggiore esperienza;
sono cambiato per i problemi che ho dovuto affrontare e la sofferenza
connessa. Il risultato finale è l’uomo che lei vede adesso (ride).

J.A.: Cosa può dirmi del periodo dell’adolescenza? Molta gente ha
delle difficoltà nel definirsi come un adulto. È successo anche a lei?

D.L.: No. Gran parte della mia vita era routine: studiavo due volte al
giorno, ogni volta studiavo un’ora, e poi passavo il resto del tempo a
giocare (ride). Poi, a 13 anni, ho cominciato a studiare filosofia,
definizioni, dibattito. Il mio programma di studio era aumentato e
studiavo anche calligrafia. Comunque faceva tutto parte di una routine
e mi ci abituai. Ogni tanto c’erano delle vacanze, durante le quali
ero a mio agio ed ero felice. Losang Samten, il fratello nato prima di
me, di solito era a scuola, ma in questi periodi veniva a farmi
visita. Occasionalmente mia madre portava anche del pane speciale
della nostra provincia di Amdo. Era molto spesso e delizioso, lo
faceva lei stessa.

J.A.: Durante la crescita, ha avuto l’opportunità d’avere un rapporto
con suo padre?

D.L.: Mio padre è morto quando avevo 13 anni. È scritto nel mio libro.

J.A.: C’è qualcuno dei suoi predecessori con il quale sente una
particolare affinità o interesse?

D.L.: Il Tredicesimo Dalai Lama. Apportò molti miglioramenti al
programma di studio dei collegi monastici e incoraggiò grandemente i
vari studiosi. Fece in modo che fosse impossibile che qualcuno potesse
avanzare nella gerarchia religiosa, diventando abate o altro, se non
era pienamente qualificato. Era molto rigido a questo proposito. Diede
anche migliaia d’ordinazioni da monaco. Questi sono stati i suoi
principali obbiettivi religiosi che ha portato a termine. Non ha dato
molte iniziazioni, né tenuto molti discorsi. Riguardo al paese, diede
grande importanza e considerazione all’organizzazione dello Stato, in
particolare delle regioni di confine, a come dovevano essere governate
e così via. Desiderava una maggiore efficienza nel governo e la
questione dei confini e di cose analoghe gli dava grandi
preoccupazioni.

J.A.: Nel corso della sua vita, secondo lei, quali sono state le
lezioni o i problemi interni più importanti che ha avuto? Quali
realizzazioni ed esperienze hanno inciso maggiormente sulla sua
crescita come individuo?

D.L.: Per quanto riguarda l’esperienza religiosa è stata una certa
comprensione della vacuità (10) – una certa percezione, qualche
esperienza ma soprattutto mi ha molto aiutato bodhicitta (11),
l’altruismo. In un certo senso, si può dire che ha fatto di me una
persona nuova, un uomo nuovo. Sto ancora cercando di progredire. La
Bodhicitta dà forza interiore, coraggio, ed è più facile accettare le
situazioni: questa è una delle più grandi esperienze.

J.A.: A proposito di bodhicitta, si riferisce ad un progressivo
approfondimento della realizzazione o a un particolare momento
associato a un’esperienza esterna?

D.L.: Mi riferisco principalmente alla pratica interiore. Potrebbero
esserci anche cause o circostanze esterne. Dei fattori esterni
potrebbero aver avuto un ruolo nello sviluppo di una propensione per
la bodhicitta. Ma deve derivare principalmente dalla pratica
interiore.

J.A.: Può indicare un momento specifico della sua pratica in cui ha
sentito di aver superato una soglia?

D.L.: A proposito della teoria della vacuità, prima la teoria della
vacuità, poi l’esperienza di bodhicitta… circa nel ’65 ’66, in quel
periodo. Ma veramente questo è un argomento molto personale. Per un
vero praticante religioso queste cose devono rimanere private.

J.A.: D’accordo. Non faro domande sulle sue esperienze più profonde,
ma nei termini del corso della sua vita – degli eventi della sua vita
– come hanno influito su di lei come uomo? In che modo e cresciuto
sperimentandole?

D.L.: Il fatto d’essere un rifugiato è stato molto utile: si è molto
più vicini alla realtà. Quando ero in Tibet, come Dalai Lama, cercavo
di essere realistico, ma in qualche modo, a causa delle circostanze
credo che avessi un certo distacco. Ero un po’ isolato dalla realtà.
Diventai un rifugiato, molto bene. Così avevo una buona occasione per
acquisire dell’esperienza, insieme a della determinazione o forza
interiore.

J.A.: Quando diventò un rifugiato, cosa l’ha aiutata ad acquisire
questa forza? È stata la perdita della sua posizione e del suo paese,
il fatto che tutti soffrissero intorno a lei? Le e stato chiesto di
guidare il suo popolo in modo diverso da come era abituato?

D.L.: Essere un rifugiato è veramente una situazione disperata e
pericolosa. In quel momento tutti si trovano davanti alla realtà. Non
è il momento di far finta che tutto sia meraviglioso. Questo è un
fatto. Ti senti coinvolto nella realtà. In tempo di pace, ogni cosa va
secondo le previsioni e, anche se c’è un problema, la gente fa finta
che vada tutto bene. In tempo di pace e di tranquillità è possibile
agire così, ma in un momento di pericolo, quando si produce un
cambiamento drammatico, allora non c’è ragione di fingere che tutto va
bene. Devi accettare il male in quanto male. Ora, quando lasciai il
Norbulinka, la situazione era pericolosa. Passammo molto vicino alle
baracche militari cinesi. Il posto di guardia cinese era proprio
dall’altra parte del fiume. Vede, due o tre settimane prima che
partissi avevamo ricevuto informazioni precise che i Cinesi erano
pronti ad attaccarci. Quello che non sapevamo era il giorno e l’ora.

J.A.: In quel momento, quando attraversò il fiume Kyichu e incontro il
gruppo di guerriglieri Khampa che lo stavano aspettando, assunse
direttamente il comando? Per esempio, chi prese le decisioni
riguardanti la sua fuga?

D.L.: Appena lasciata Lhasa io e altre otto persone abbiamo costituito
un comitato per discutere ogni questione.

J.A.: Fu sua l’idea di renderlo unanime?

D.L.: Sì. Anche coloro che rimasero a Lhasa costituirono un Comitato
del Popolo. Qualcosa come un Consiglio rivoluzionario. Ovviamente, dal
punto di vista dei Cinesi, era un comitato controrivoluzionario. Era
stato scelto dal popolo, vede, in pochi giorni… Organizzarono quel
comitato che prendeva tutte le decisioni più importanti. Ho mandato
anche una lettera al comitato, legittimandolo. Nel nostro piccolo
comitato, formato da quelli che fuggivano con me – discutevamo ogni
sera le questioni pratiche. Ci sedevamo insieme e discutevamo, ma non
sempre. In principio, come lei sa, il nostro piano era di stabilire il
nostro quartier generale nel sud del Tibet. Nel mio libro ho parlato
di questo. Dissi anche al Pandit Nehru – credo che fosse il 24 aprile
1959 – che avevamo costituito un governo provvisorio Tibetano,
trasferito da Lhasa al Tibet del sud. Ne parlai casualmente al Primo
Ministro e lui ne fu leggermente scosso (ride). “Non riconosceremo il
vostro governo”, disse, sebbene questo governo fosse stato formato in
Tibet, e io mi trovassi già in India…

J.A.: Vorrei chiederle qualcosa riguardo al fatto d’essere la
reincarnazione di Avalokiteshvara, il Bodhisattva dell’infinita
Compassione. Cosa pensa personalmente a questo riguardo? È qualcosa di
cui, in un modo o nell’altro, ha una visione inequivocabile?

D.L.: È difficile per me dirlo con certezza. A meno che m’impegni in
uno sforzo meditativo, ripercorrendo all’indietro la mia vita da un
respiro all’altro, non potrei dirlo con precisione. Noi crediamo che
ci siano quattro tipi di rinascita: il primo e il tipo comune nel
quale un essere è incapace di determinare la sua rinascita e s’incarna
solo in conseguenza della natura delle azioni passate. Il tipo opposto
è quello di un Buddha, completamente illuminato, che semplicemente per
aiutare gli altri manifesta una forma fisica. In questo caso è chiaro
che la persona è un Buddha. Il terzo tipo è quello in cui, grazie ad
una passata realizzazione spirituale, uno può scegliere o almeno
influenzare il luogo e la situazione della propria rinascita. Il
quarto tipo viene chiamato una manifestazione dell’energia illuminata:
in questa rinascita la persona, al di là delle normali capacità, ha
raggiunto lo stato di poter agire per il bene altrui, per esempio,
dando insegnamenti religiosi. Per ottenere quest’ultimo tipo di
rinascita, nelle vite precedenti si deve aver sviluppato un desiderio
molto forte di aiutare gli altri. Così si ottiene questo tipo di
potere. Non posso dire con certezza a quale tipo di rinascita
appartengo, sebbene alcuni sembrino più probabili di altri.

J.A.: Come si sente allora dal punto di vista dell’effettivo ruolo da
lei svolto in qualità di Cenrezig? Storicamente solo poche persone
sono state considerate, in un modo o nell’altro, divine. Questo ruolo
è un peso o una gioia?

D.L.: È di grande aiuto. In questo ruolo, posso essere di grande
beneficio alla gente. Per questo motivo mi piace e mi sento a mio
agio. È chiaro che è di grande aiuto alla gente e che ho la
connessione karmica per svolgere questo ruolo. È chiaro anche che
esiste una connessione karmica col popolo Tibetano in particolare.:
Vede, date le circostanze, potrebbe ritenere che sono molto fortunato.
Tuttavia, dietro la parola fortuna, ci sono ragioni o cause precise.
C’è la forza karmica della mia capacità di assumere questo ruolo e la
forza della mia volontà di agire in questo senso. A questo proposito
c’è un’affermazione nel grande testo di Shantideva “Guida allo stile
di vita di un Bodhisattva” che dice: “Fino a quando esisterà lo
spazio, e fino a quando ci saranno dei migratori nell’esistenza
ciclica, possa io rimanere per eliminare la loro sofferenza”. Ho
questo desiderio in questa vita, e so di aver avuto questo desiderio
nelle vite passate.

J.A.: Con uno scopo così vasto come motivazione, come supera i suoi
limiti come uomo?

D.L.: Di nuovo, come dice Shantideva: “Se il Buddha benedetto non può
compiacere tutti gli esseri senzienti, allora come potrei farlo io?”
Persino un essere illuminato, con conoscenza e potere infiniti e con
il desiderio di salvare tutti gli esseri dalla sofferenza, non può
eliminare il karma individuale di ciascun essere.

J.A.: È questo che le permette di non sentirsi sopraffatto quando vede
la sofferenza dei sei milioni di Tibetani dei quali, ad un certo
livello, è responsabile?

D.L.: La mia motivazione è diretta verso tutti gli esseri senzienti.
Non c’è dubbio tuttavia che, ad un altro livello, mi dedichi ad
aiutare i Tibetani. Se un problema si può risolvere, se una situazione
è tale da poter fare qualcosa, allora non c’è bisogno di preoccuparsi.
Se non c’è soluzione, allora preoccuparsi non serve a nulla. In ogni
caso preoccuparsi non porta alcun beneficio.

J.A.: Molte persone pensano così, ma pochi riescono a vivere veramente
in questo modo. È sempre stato così, o ha dovuto imparare?

D.L.: Questa attitudine si sviluppa attraverso la pratica interiore.
In una prospettiva più ampia, ci sarà sempre sofferenza. Da un lato è
sicuro che si dovranno sperimentare gli effetti delle azioni negative
compiute precedentemente con il corpo, la parola o la mente. Inoltre,
la sofferenza è insita nella natura stessa dell’esistenza. Nella mia
affermazione non interviene un solo fattore, ma molti fattori
differenti. Dal punto di vista dell’effettiva entità che produce la
sofferenza, come ho detto, se c’è rimedio allora non c’è motivo
d’angustiarsi. Se non c’è rimedio, preoccuparsi non porta alcun
beneficio. Dal punto di vista della causa, la sofferenza è prodotta da
azioni negative passate accumulate dall’individuo stesso e da nessun
altro. Questi karma non si esauriscono e daranno il loro frutto. Non
si sperimenteranno gli effetti d’azioni che non si sono commesse in
prima persona. Infine, dal punto di vista della natura della
sofferenza stessa, gli aggregati della mente e del corpo hanno come
loro effettiva natura la sofferenza. Servono da base alla sofferenza.
Fino a quando li avremo saremo soggetti alla sofferenza. Da un punto
di vista più profondo, finché non avremo la nostra indipendenza e
saremo ospiti in un paese che non è il nostro, proveremo un certo tipo
di sofferenza, ma quando torneremo in Tibet e avremo ottenuto la
nostra indipendenza, allora avremo altri tipi di sofferenza. È così.
Lei potrebbe credere che sono pessimista, ma non lo sono. Questo è il
realismo Buddhista. Questo è il modo in cui, attraverso l’insegnamento
e il pensiero Buddhista affrontiamo le situazioni. Quando furono
uccise cinquantamila persone della stirpe dei Shakya in un solo
giorno, Buddha Shakyamuni, che pure apparteneva alla stessa stirpe,
non soffrì affatto. Stava appoggiato ad un albero, e diceva: “Sono un
po’ triste, oggi, perché 50 mila uomini della mia stirpe sono stati
uccisi”. Ma lui stesso rimase impassibile. Proprio così, vede. (Ride).
Questo era la causa ed effetto del loro karma personale. Non poteva
fare niente. Questo genere di pensieri mi rende più forte, più attivo.
Non è assolutamente il caso di perdere la propria forza e la propria
volontà di fronte alla natura onnipervadente della sofferenza.

J.A.: Quando prova dei sentimenti di felicità, come fa a rimanere distaccato?

D.L.: Quando si abbandona la propria famiglia e la propria casa, come
nel caso di un monaco, si pongono molti limiti alla propria vita e al
proprio comportamento. Questi limiti danno automaticamente un
appagamento. Dipende dall’attitudine personale. Se si ha la tendenza a
volere di più, allora quando si va in un negozio si vorrà tutto quello
che c’è, o anche tutto quello che c’è in tutti i negozi. Ma se
l’attitudine è di volere solo ciò che serve, allora niente di tutto
ciò serve.

J.A.: Mi interessa quello che fa per rilassarsi: il giardinaggio e gli
esperimenti d’elettronica.

D.L.: Oh, i miei hobbies. Passatempi (ride). Quando riesco a riparare
qualcosa sono veramente soddisfatto. Ho cominciato a smontare le cose
da piccolo perché ero curioso di capire come funzionavano certe
macchine. Volevo sapere cosa c’è all’interno del motore, ma adesso
cerco solo di aggiustare qualcosa quando si rompe.

J.A.: E il giardinaggio?

D.L.: Il giardinaggio a Dharamsala è un’impresa quasi disperata. Per
quanto duramente si lavori, il monsone viene a distruggere ogni cosa.
Sa, la vita di un monaco è molto gratificante, molto felice. Si può
capirlo da quelli che hanno abbandonato la vita monastica. Conoscono
perfettamente il valore della condizione di monaco. Molti mi hanno
detto quanto sia complicata e difficile la vita di chi non è monaco.
Con una moglie graziosa e dei figli si può essere felici per un certo
tempo. Col tempo, però, si presentano spontaneamente molti problemi e
si perde metà della propria indipendenza e della propria libertà. Se
c’è qualche beneficio o significato nello sperimentare il disagio che
sorge quando si rinuncia alla propria indipendenza, allora ne vale la
pena. Se si tratta di una situazione in cui si aiuta effettivamente la
gente, allora va tutto bene. Il disagio è giustificato, se non è così,
non ne vale la pena.

J.A.: Ma nessuno di noi sarebbe qui a parlarne, se non avessimo madri e padri!

D.L.: Non sto dicendo che avere figli sia un male, o che tutti
dovrebbero essere monaci. Impossibile (ride). Penso che se viviamo una
vita semplice allora dovrà esserci appagamento. La semplicità è
estremamente importante per la felicità. Avere pochi desideri,
sentirsi soddisfatti con ciò che si ha è molto importante. Ci sono
quattro cause che contribuiscono a creare un essere superiore. Essere
soddisfatti di qualsiasi cibo si riceve. Essere soddisfatti d’avere
stracci per vestito, o accettare qualsiasi cosa per coprirsi senza
desiderare vestiti alla moda o colorati. Contentarsi di un riparo
appena sufficiente per proteggersi dagli elementi. E, infine
un’intensa gioia nell’abbandonare gli stati mentali negativi e nel
coltivare quelli utili attraverso la meditazione.

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