Testimonianze di pre-morte – 3
“Testimonianze di pre-morte”
– di Lucia Pavesi –
(terza parte)
“OLTRE LA VITA” (Lucia Pavesi)
LA STORIA DI ANDREA
Nome: Andrea Gatti Nato a: Torino il 12/5/1936
Stato civile: Coniugato, padre di tre figli
Professione: Antiquario
Data dell’evento: 18/3/1989
Causa: Ulcera gastrica
Localita’: Torino
Conseguenze: Nessuna
Un sibilo acuto e improvviso mi scosse profondamente. Non ebbi, pero’, il tempo di riavermi e di
chidermi cosa stesse succedendo, perche’ un nuovo e strano rumore colpi’ le mie orecchie:
assomigliava al suono di un gong orientale. Lo strano e’ che quei rumori poco piacevoli non mi
disturbarono affatto, al contrario li trovavo familiari e amichevoli e mi lasciai andare
tranquillamente.
Allora un’onda calda mi travolse, trascinandomi in un vortice d’aria che mi sospinse verso l’alto.
Ero in uno stato di beatitudine e, in assenza di gravita’, volteggiavo, sospeso come uno di quegli
aeroplanini di carta che mi divertivi a costruire a scuola, facendo infuriare la mia maestra. Ho
sempre amato il volo e fin da piccolo avevo accarezzato il sogno di diventare un pilota di caccia.
C’era la guerra, allora; ma, per quanta paura mi facessero i bombardamenti, ero sempre l’ultimo a
scendere nei rifugi.
Rimanevo fermo, con il naso in aria, cercando di scorgere attraverso le dense nubi di fumo gli aerei
che ci sorvolavano in formazione ordinata. Molto probabilmente il mio gran desiderio di volare si
sarebbe avverato, se non fosse stato per lo stupido, ma grave, incidente che mi capito’ all’eta’ di
quindici anni.
Stavo costruendo l’ennesimo modellino d’aereo e, proprio mentre mi accingevo con estrema cura a
saldare due elementi della fusoliera, una piccola scheggia di ferro mi penetro’ nell’occhio destro,
ferendomi irrimediabilmente la cornea.
I miei genitori mi fecero visitare dai piu’ illustri specialisti; ma, purtroppo, nemmeno un
intervento chirurgico riusci’ a restituirmi l’uso dell’occhio. Diedi cosi’ per sempre l’addio al mio
luminoso avvenire di pilota.
Passarono gli anni, ma l’amarezza di quel sogno infranto non mi abbandono’ mai. Il mio terribile
orgoglio e la testardaggine fecero di piu’: per tutta la mia vita mi rifiutai di salire su un aereo.
Anche quando, per motivi di lavoro, ero costretto a lunghi viaggi, sceglievo altri mezzi per
viaggiare, ma a nessuno avevo mai confessato il perche’: preferivo che pensassero che la mia fosse
solo paura del vuoto.
In quegli istanti, invece, ero felicissimo: finalmente provavo la meravigliosa sensazione tanto
desiderata. Stavo volando come un novello Icaro. Provavo un unico desiderio: che si diradasse
l’intensa nebbia da cui ero circondato e che mi impediva di vedere sia dove mi trovavo, sia cosa
stavo sorvolando.
Appena formulato questo pensiero, tutto mi apparve nitido e chiaro. Ero sospeso nella stretta area
di una sala operatoria, asettica e sconosciuta. Non potevo certo sbagliarmi: vedevo macchine
collegate a strani tubi e carrelli con ferri lucenti e ordinatissimi e le mie narici erano colpite
dallo sgradevole odore di disinfettante. Mi guardai in giro piuttosto stranito: vidi quattro medici
che indossavano lunghi camici verdi e avevano il viso semicoperto da mascherine dello stesso colore.
Erano indaffaratissimi e rivolgevano ordini perentori alle tre infermiere che li assistevano:
“…..Bisturi… Forbici… Garze… Divaricatore… Tampone… Aspiratore… Subito altro plasma…
Presto, controllo pressione… In fretta….. ..Attenzione, il polso e’ sempre piu’ debole, la
pressione sta calando, il paziente fatica a respirare…..”
Quella voce apparteneva a un altro medico che, diversamente dagli altri, stava seduto su un alto
sgabello e aveva vicino a se’ delle bombole rosse e blu. Sembrava seriamente preoccupato e, a un
certo punto, esclamo’ agitatissimo:
“..Il cuore ha smasso di battere… Adrenalina… In fretta… Via con gli elettrostimolatori…..”
Si avvicino’ allora un altro medico, che fino a quel momento non avevo notato; spingeva un
apparecchio cui erano collegate delle piastre metalliche, molto simili a piccole racchette da
ping-pong. Aveva qualcosa di familiare, tanto negli occhi quanto nel modo di muoversi; mi ricordava
qualcuno, ma non riuscivo a capire chi.
Non so spiegarmi il motivo della mia curiosita’, ma tentai di attirare la sua attenzione, perche’ mi
era sorto un dubbio. Cercai di fare dei gesti, di chiamarlo: volevo dirgli che assomigliava molt= o
al mio amici Paolo; ma, lui non mi vedeva, ne’ mi sentiva. Era il piu’ agitato di tutti e, come gli
altri, si chino’ sul lettino operatorio su cui giaceva un corpo ricoperto quasi interamente da
lenzuoli verdi. Solo la zona dell’addome era scoperta e lasciava intravvedere una larga e profonda
ferita da cui usciva molto sangue.
Il volto del paziente era semicoperto da una mascherina nera di gomma, molto simile a quella
indossata dai piloti dei caccia dei miei sogni infantili. Avevo l’impressione di conoscere anche
quell’uomo inerte, ma non ne ero sicuro. In quel momento udii dire:
“..Emergenza… Emergenza… Il paziente non riprende… Cosa puo’ essere successo? Riproviamo!
Subito altro ossigeno… Inutile… E’ MORTO…..”
A quel punto avevo ormai perso ogni interesse per quanto si stava svolgendo in quel luogo; anzi, a
dir la verita’, ero piuttosto imbarazzato. Mi sentivo un intruso che si trova in casa d’altri senza
essere stato invitato. O peggio, era come guardare dal buco di una serratura, imperdonabile
indiscrezione che non e’ piu’ nelle mie abitudini da quella volta che, sorpreso a spiare mia sorella
in bagno, fui punito da un solenne schiaffone da mia madre.
Decisi, allora, di allontanarmi da li’. Quella gente mi creava solo confusione e disagio. Passai
attraverso le due porte basculanti alla mia destra, e mi trovai in un’altra stanza pressappoco delle
stesse dimensioni della prima. Le pareti erano occupate da file ordinate di scaffali metallici, su
cui erano allineate: lenzuola, bende e garze sterili; un paravento di plastica bianca nascondeva un
lavandino. Al posto del tavolo operatorio c’era una scrivania metallica, dietro cui sedeva un medico
anziano, che sfoggiava un imponente paio di baffi bianchi. Stava bevendo un caffe’ e mostrava a un
collega una radiografia appesa su un quadro luminoso.
Per un istante fui tentato di segnalare loro che nell’altra stanza i loro colleghi stavano lottando
per una causa ormai persa, ma, essendo molto discreto, decisi di non farlo e di proseguire. Percorsi
un lungo corridoio, che aveva un pavimento di lucido linoleum verde acqua ed era illuminato da una
luce bianca al neon. In fondo, entrai in una piccola stanza d’attesa che aveva un aspetto
tranquillo, con qualche pretesa d’eleganza.
Tre persone erano sedute sulle poltroncine di pelle. ..
Dove le ho gia’ viste?.. mi chiesi per un istante. Tralasciai di darmi una risposta e mi limitai a
osservarle da vicino: parlavano con una signora bruna, visibilmente tesa, che fumava accanitamente.
Un altro uomo, in piedi, con indosso uno sgualcito impermeabile bianco, aveva il naso arrossato dal
raffreddore e fissava con ammirazione i quadri appesi alla parete. Mi volsi incuriosito da quella
parte e scossi decisamente la testa con disappunto: erano orribili, vecchie croste riproducenti
scene di caccia, volgari imitazioni dei grandi maestri del Settecento.
Potevo ben giudicare: da circa trent’anni facevo l’antiquario e gestivo con grande soddisfazione
un’importante casa d’aste, che faceva affari in tutto il mondo. Ero animato da sentimenti
contrastanti: da una parte desideravo dare a quel signore una lezione di storia dell’arte,
dall’altra sapevo che non sarebbe stato, ne’ opportuno, ne’ educato. Mentre mi soffermavo, incerto
sul da farsi, mi sentii spingere sempre piu’ in alto; o meglio, venni lanciato come un razzo verso
il vuoto assoluto. Sotto di me vedevo ogni cosa rimpicciolirsi sempre piu’. Ero eccitatissimo e
felice come un bambino il giorno di Natale. Davanti a me scorgevo un gran fascio di luce che mi
veniva incontro a velocita’ pazzesca.
Piu’ mi avvicinavo e piu’ mi sembrava di accostarmi al sole, ma i miei occhi non avvertivano alcun
fastidio. Avanzavo, immerso in un’atmosfera incandescente ed estremamente piacevole. Infine,
lentamente, la mia corsa rallento’, al punto da consentirmi di distinguere, sotto di me, una grande
e bellissima distesa verde piena di alberi da frutto e fiori multicolori.
Quando toccai terra, venni circondato da una grande folla di gente festosa che intonava una melodia
dolcissima. Tutti avevano un aspetto sereno e dai loro volti emanava una luce d’amore tanto intensa
da non poter essere descritta. In loro compagnia cominciai a visitare quel luogo paradisiaco.
Incontrai persone care che avevo conosciuto e amato; e riconobbi i miei nonni, gli zii e alcuni
amici e conoscenti.
Camminavano. tenendosi per mano e mi sorridevano. A un certo punto si scostarono aprendo un varco e
permettendom= di distinguere la figura di mio padre, che mi abbraccio’ con tenerezza infinita.
Commosso e sbalordito, notai come mio padre si muovesse ben eretto sulla persona. Strano davvero,
perche’, a causa di una grave ferita riportata nel secondo conflitto mondiale, era stato costretto a
trascorrere gran parte della vita su una sedia a rotelle.
Gli chiesi come era potuto accadere quel prodigio e lui, sorridendo mi disse:
“..Caro figlio, in questo mondo meraviglioso tutto e’ perfetto, perche’ cosi’ permette e vuole la
Luce. Qui non esistono le sofferenze terrene e le tracce degli errori passati vengono cancellate per
sempre. Prova a coprirti con la mano l’occhio sinistro e ti accorgerai che riesci a vedere
ugualmente bene. Noi siamo in grado di percepire e captare ogni particolare senza bisogno di
ricorrere all’uso dei cinque sensi…”
“..Papà… – chiesi – ..cos’e’ esattamente questa Luce? Io non capisco…”
“..La Luce e’ il bene infinito, e’ l’amore supremo, fonte di ogni vera gioia e delizia. Figliolo,
nella vita terrena non sempre si da’ il giusto significato alle proprie azioni. Molto spesso non si
comprende l’esatto insegnamento e il valore degli avvenimenti e delle esperienze che si vivono .
..Quando giungiamo qui, vediamo la Luce, entriamo in essa, possiamo comprendere l’assurdita’ di
certi nostri comportamenti, avvertiamo il peso della nostra egoistica ignoranza. Ritroviamo il
sapore e il significato dei piccoli gesti quotidiani, cui non avevamo mai dato importanza, come
veder nascere un fiore, aprire una finestra in un mattino d’estate, assaporare il pane appena
sfornato o veder sorridere qualcuno a cui abbiamo teso una mano. ..Arriviamo finalmente a
comprendere come l’unica cosa che veramente abbia peso e importanza sia l’amore universale. Questo
e’ l’unico sentimento in grado di farci pervenire alla pace e alla felicita’ e…..”
“..Papa’, perche’ ti sei interrotto? Voglio sapere altre cose…..”
Mentre pronunciavo quelle parole, una luce vivissima mi investi’ e una voce lontana m’indusse a
guardare fisso di fronte a me. Il “film” della mia vita scorreva velocemente davanti ai miei occhi.
Rividi luoghi ed episodi dimenticati, ritrovai volti del mio passato e finalmente capii cosa mio
padre intendesse spiegarmi. Mi voltai commosso verso di lui e gli espressi la mia intenzione di
rimanere per sempre in quel luogo. Non desideravo affatto tornare giu’, ritrovare il dolore,
l’imbarazzo e la vergogna che avevo provato nel rivedere la mia esistenza.
“..Andrea, il tuo tempo non e’ giunto a termine, il tuo cammino si deve ancora svolgere: percio’
devi tornare tra i mortali. E’stato concesso a me di accompagnarti e sollecitarti in tal senso…”
Per un istante riprovai la stessa delusione di quando a quindici anni avevo visto infrangersi il mio
sogno infantile, ma ora avevo imparato ad accettare quanto il destino aveva in serbo per me. Mentre
mio padre pronunciava quelle parole, mi sentii calare dolcemente, ma decisamente, verso il basso.
La mia discesa non fu veloce come la salita; ma, presto, mi ritrovai nella stanza d’attesa
dell’ospedale da cui ero partito per quel viaggio straordinario. Riconobbi subito la signora bruna
che poco prima fumava nervosamente: era mia moglie e piangeva senza ritegno tra le braccia dell’uomo
dall’impermeabile sgualcito. L’osservai incuriosito: ma certo, non poteva essere che mio cognato,
che di arte non aveva mai capito nulla! Le altre persone presenti erano i miei migliori amici.
“..Cosa fanno qui? Come mai Liliana e’ cosi’ disperata, con i capelli in disordine e una calza
smagliata?..”
In quell’istante entro’ il mio amico Paolo, che indossava ancora il camice verde da sala operatoria.
Tentando disperatamente di nascondere la commozione dietro l’aria professionale, comunico’ loro il
mio decesso. Allora era proprio lui il medico che poco prima avevo creduto di conoscere! Che
strano!…Ma cosa stava dicendo? Mi sentivo confuso; poi tutto mi torno’ chiaro nella mente:
” ..Quel corpo disteso sul lettino operatorio sono io!..” – pensai.
La ferita aperta che avevo visto, era stata praticata sul mio addome. Ma certo! Come avevo potuto
dimenticare? Io ero entrato in ospedale qualche giorno prima per sottopormi a un intervento allo
stomaco. Paolo mi aveva garantito la sua presenza e ora…
“Ora devo trovare il mio corpo al piu’ presto! Devo affrettarmi, perche’ so di essere ancora vivo.”
Un raggio di sole penetro’ sotto le mie palpebre chiuse; mi svegliai indolenzito e ancora
stralunato, quando sentii mia moglie chiamarmi: “
..Andrea, Andrea, sei sveglio! O caro, e’ un vero miracolo. Non sai che spavento ci hai fatto
prendere…”
“..Invece lo so benissimo, anzi ti posso raccontare ben di piu’, cara Liliana. Ma prima sistemami
meglio questi cuscini, sto scomodissimo…”
(Andrea Gatti)
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