The Quantum Brain

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estratti da “The Quantum Brain” di J. Satinover

Il cervello genera e conduce l’incredibile complessità che caratterizza una forma di vita
intelligente, sulla base di processi che sono fondamentalmente computazionali, e che tuttavia non
assomigliano affatto a quelli eseguiti dal vostro PC o dal vostro Mac. Il cervello impara da solo,
sulla base delle sue stesse esperienze, e radica le lezioni apprese sperimentando, riconfigurando
il suo stesso hardware. Per molti decenni si è continuato a supporre che la corteccia dovesse
essere dotata di una sorta di ‘schema elettrico’, in cui veniva descritto in modo preciso il ruolo
specifico di ogni neurone, e di ogni connessione tra neuroni. Ma era già ben chiaro che in realtà
il cervello non poteva operare in base a uno schema di quel tipo: c’erano davvero tanti, troppi
neuroni, e le loro innumerevoli interconnessioni sfuggivano alla logica di ogni possibile schema.
In effetti dieci miliardi di cellule caratterizzate da un migliaio di interconnessioni l’una
comportano l’incredibile numero di diecimila miliardi di connessioni. Oltre a ciò bisogna
considerare come sia stato fin da subito pressoché impossibile trovare una logica in quel mare di
connessione, alcune delle quali erano confuse e caotiche; molti connessioni neuronali finivano per
far ritorno al punto di partenza, generando con ogni probabilità dei veri e propri circoli
viziosi. Se anche ci fosse stato un progetto di qualche tipo, l’ammontare di informazioni
necessario per codificare uno schema talmente complesso avrebbe di gran lunga superato le capacità
informatiche del cervello stesso, per non parlare poi della capacità di codificazione del DNA. E
comunque, come poteva essere possibile assemblare fisicamente qualcosa del genere, soprattutto a
quel livello microscopico, in soli nove mesi? La risposta, che è una conquista scientifica recente,
ha sorpreso un po’ tutti: in effetti le connessioni del cervello sono in gran parte casuali.
Eppure, contrariamente a quanto il comune buon senso potrebbe suggerire, questo sistema casuale è
in grado di manifestare una forma d’intelligenza. In effetti riesce a manifestare un’intelligenza
superiore, anzi, per essere più precisi, un genere d’intelligenza superiore, di gran lunga migliore
di quello che potrebbe essere alimentato da un progetto più definito. È proprio grazie a questo
guazzabuglio caotico che un pilota da combattimento riesce a manovrare il suo caccia a velocità
supersoniche, cosa che neppure un congegno elettronico da un quarto di milione di dollari
riuscirebbe a fare altrettanto bene. Se l’elettronico riuscirà ad avvicinarsi a qualcosa del
genere, sarà solo perché i progettisti avranno voluto, e saputo, creare un elaboratore elettronico
in grado di addestrarsi da solo, proprio come fa il cervello umano. Un sistema come quello del
nostro cervello si auto-organizza, raggiungendo livelli sempre più elevati, evolvendo continuamente
la sua capacità di elaborazione dei dati. Come vedremo, un’intelligenza globale (e per ‘globale’
potremmo persino intendere qualcosa che riguardi l’intero pianeta) scaturisce dal basso verso
l’alto, prendendo cioè spunto da interazioni meramente locali. È un po’ come dire che la vera
intelligenza, quella che guida l’economia americana, non è nelle mani (o nelle teste) dei
politicanti di Washington, ma è invece sparpagliata nelle conversazioni notturne dei camionisti che
si incontrano all’autogrill, nelle domande dei clienti ai negozianti e nelle loro pronte risposte,
nelle chiacchierate amichevoli dei vicini, che discutono di affitti e di mutui. Analogamente,
l’autentica intelligenza del cervello umano non risiede in qualche centrale o schema di comando
fissato nel DNA, ma nelle interazioni casuali di un neurone e dei suoi vicini (oppure negli scambi
a lunga distanza attraverso la rete cerebrale, che potrebbe essere equiparata al nostro Internet).
Il processo funziona anche nell’altro senso. È evidente come l’elemento fondamentale, il ‘mattone’
del ‘sistema nervoso’ sia un singolo ‘nervo’, ovvero un neurone. Ma i neuroscienziati hanno a
lungo insistito sul fatto che nelle forme di vita complesse del pianeta questa è la più piccola
unità capace di elaborare dati. Ovviamente i batteri e gli altri organismi unicellulari privi di
sistema nervoso sono anch’essi in grado di elaborare dei dati, a loro modo. Ma si ritiene che quei
processi rudimentali non abbiano nulla a che vedere con l’intelligenza umana. Vedremo invece che
nell’ambito di ogni singolo neurone si palesa un complesso insieme di eventi computazionali, che
possono analogamente essere definiti piuttosto ‘intelligenti’ e che si servono dello stesso
principio dell’auto-addestramento spontaneo che dirige lo sviluppo complessivo del cervello. Dal
microcosmo al macrocosmo e viceversa, ovvero dal più piccolo elemento nell’ambito della cellula
cerebrale umana che sia possibile studiare al funzionamento dell’intera società umana, l’ordine
scaturisce dal caos sulla base dello stesso insieme di principi.

Durante la mia attività di psichiatra ho lavorato con molti individui considerati persone di grande
successo, che trovandosi in cattive acqua avevano qualche difficoltà ad affrontare quelle battute
d’arresto, che consideravano ‘fallimentari’. Ho così imparato la seguente lezione: le persone che
hanno ottenuto dalla vita un vero, autentico successo, hanno una storia personale piuttosto
tormentata, ovvero costellata da una serie di eventi che loro stessi considerano ‘gravi
sconfitte’. Per questo genere di persone il successo non è definito da uno standard esterno,
oggettivo, invariabile da una persona all’altra, ma dal livello di realizzazione che loro stessi,
individualmente, sperimentano come inequivocabilmente soddisfacente (e che poi può spesso
coincidere, anche se ciò non è affatto necessario, con quello che viene universalmente definito
come ‘avere successo’). Immancabilmente, le persone che hanno una storia personale pressoché
perfetta, e che potremmo definire eccellente sulla base di criteri ‘oggettivi’, finiscono per
soffrire di due tipici disturbi: sono terribilmente sensibili a ogni forma di fallimento (ed ecco
perché, quando gli capita, colano a picco e finiscono per chiedere il mio aiuto) e d’altro canto
pensano di non aver mai davvero realizzato il loro potenziale, anche se non hanno mai vissuto crisi
severe. E hanno ragione, checché ne dicano tutte le strategie di auto-stima su cui si basano molte
delle terapie moderne, strategie che benché facciano leva sull’amorevolezza e sugli aspetti
migliori dell’essere umano, risultano assolutamente inutili. In realtà, una buona esposizione al
fallimento, per un periodo di tempo sufficientemente lungo, non solo ci vaccina contro il collasso
emotivo, ma ci permette di fare conoscenza con situazioni che superano la nostra capacità, la
nostra portata: se non si prova a cadere, non si può neppure crescere.

(da The Quantum Brain, di J. Satinover, MacroEdizioni)

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