di Chandra Candiani
In realtà le vere saggezze e possibilità di redenzione non servono
all’addestramento né allo svago, ma sono destinate a chi ha l’acqua alla
gola.
(H. Hesse)
—
Di cosa parla un libro? E in particolare di cosa parla un libro di Dhamma?
Forse tutti i libri sono doni d’amore, sassolini di quella misteriosa
strada che tenta di raggiungere l’altro, di comunicargli dove sono io, come
vivo, come mi salvo la vita. Ricordo come perfetta sintesi della scrittura,
in quanto ricerca e comprensione dell’altro, la lettera che ho ricevuto da
un mio grande amico di quattro anni: “Sono a P., a P. nevica, anche da te è
Natale?”. Come dire: vedi anche tu quello che vedo io? Anche se siamo
distanti, sentiamo le stesse cose?
E un libro di Dhamma? Un libro che sospinge a vedere le cose così come sono?
Cosa insegna? E dove ci vuole portare? E perché? E come?
Sono usciti due libri di Dhamma di Corrado Pensa, uno si chiama *Attenzione
saggia, attenzione non saggia *; l’altro L’intelligenza spirituale **.
Credo che ogni libro inizi dal centro, da un centro, e poi si disperda fino
a toccare l’inizio e l’ultima parola. Al centro de L’intelligenza spirituale
stanno scritti alcuni interrogativi, quelli che ci permettono di sapere se
stiamo seguendo il nobile ottuplice sentiero o una qualche pratica esotica
che ci dà un certo misterioso benessere ogni tanto.
Quanta contentezza e serenità c’è nelle nostre vite e cosa facciamo perché
ci sia? In che rapporto siamo con gli altri: distratto o rispettoso? Etica è
una parola morta o viva per noi? Quanta sofferenza non necessaria siamo
consapevoli di fabbricare dentro e fuori di noi? Quanta capacità abbiamo di
abbandonare ciò che nuoce e di scegliere ciò che giova e quanto ci anima un
progetto siffatto? Concepiamo la possibilità di una visione della vita e
della morte che trascenda la visione angusta e confusa che ci portiamo
dentro? Intendiamo esplorare questa possibilità?
Per fortuna il libro non risponde a nessuno di questi interrogativi, ma ci
aiuta a reggerli e a conoscere un modo di vivere che fa spazio a queste
domande e che rende tutta la nostra vita una possibile risposta. Al centro
del libro sta dunque l’affermazione che la pratica del Dhamma è pratica
dell’ottuplice sentiero (retta comprensione, retta motivazione, retta
parola, retta azione, retto modo di vita, retto sforzo, retta
consapevolezza, retta calma concentrata) e non solo pratica meditativa
formale ed eventualmente informale.
Dunque, un libro di Dhamma insegna che c’è un sentiero (che il Buddha ha
scoperto, percorso e rivelato) nel fitto della selva della vita e che questa
confusa selva non è che l’immagine esterna della nostra mente illusa e
ignorante che rincorre ciò che appare come piacevole e respinge e scappa da
ciò che appare come doloroso, perché ignora che questo percorso non fa che
aumentare la sofferenza, perché segue solo i dettami immediati e le reazioni
abituali dell’io e non vede il cammino e non percepisce il camminare. E
insegna che questo sentiero porta a liberarsi da ogni credenza, da ogni
reattività condizionata e a svelare che un sentiero si snoda dentro di noi e
giorno dopo giorno si riflette nel nostro percorso esterno ed è uno strano
sentiero all’indietro, ogni giorno un passo indietro rispetto a quello che
credevamo nostro, ogni giorno osservo la paura da un luogo di minor paura,
il desiderio da un luogo di minor eccitazione, la rabbia da un luogo di
maggior umorismo, ogni giorno sono un po’ più me stesso e un po’ più libero
da me stesso. E in questo sentiero ci si cammina perché porta benessere,
subito, non un giorno, non alla fine, subito. E ogni libro di Dhamma
descrive com’è il sentiero e come ci si arriva e come non perdersi e come
aver fiducia che si giunge presto
o tardi a casa, ma anche che ogni passo è già casa e anche che ogni sentiero
è unico e irripetibile eppure lo stesso.
Credo che quello che più mi avvicina al modo di indicare il Dhamma di
Corrado, sia la sua capacità di non dividere i mondi, di vedere nel piccolo
il grande, di far coincidere microcosmo e macrocosmo, sentiero esterno e
sentiero interno. Chiunque studi e pratichi con lui sa che i suoi esempi di
pratica riguardano le attese dal dentista, le code alla posta, il traffico
cittadino, i cattivi risvegli, i malumori, i piccoli insidiosi disagi che
non visti fanno di una giornata un piccolo inferno. E sanno anche che queste
stanze di vita quotidiana non sono una specie di gioco dell’oca per
diventare sempre più abili a non cadere in trappola e alla fine vincere un
premio, ma piuttosto una mappa d’amore dove ogni situazione è un incontro
con nuove facce di noi e dell’altro e che alla fine ci aspetta il sereno
disincanto di sapere che siamo sempre stati al posto giusto, solo che
bisognava svegliarsi, risvegliarsi alla familiarità inaspettata del luogo
da cui siamo partiti e a cui siamo infine ritornati, risvegliarsi alla
semplicità di aprirsi alla vita così com’è e a lasciarsi alle spalle con un
sorriso indulgente il folle cronista che ci continua a bisbigliare come
invece la vita dovrebbe essere.
Ecco un esempio a pagina 8, 9 e 10 di Attenzione saggia, attenzione non
saggia:
“Andiamo dal medico e con nostra sorpresa troviamo in sala d’attesa il
doppio o il triplo delle persone che abitualmente frequentano lo studio. È
possibile che, dopo un attimo di sconcerto, assorbiamo il colpo e rimaniamo
con la situazione così com’è, e non con quella che ci sarebbe piaciuto che
fosse stata, o che avrebbe dovuto essere. (.) Che cosa c’è quando non c’è
accettazione di quello che sta accadendo? C’è sofferenza, ed esiste un
raporto diretto tra questa sofferenza e la nostra non accettazione. (.) La
sofferenza che scatta in quel momento è fatta di cosa? È fatta di
attaccamento, è fatta di avversione, è fatta di ignoranza. Cioè dei tre
inquinanti che il Buddha indicò come le cause di dukkha, le cause della
sofferenza.
Ecco qui come in un ordinario studio medico urbano ci si offra la
possibilità di illuminarci, di illuminare la sofferenza che ci
autoinfliggiamo e di riposare tranquilli in quel che già c’è. E, cosa
altrettanto importante, ci si offra di non rimandare l’illuminazione o la
liberazione dalla sofferenza non necessaria a un qualche particolarissimo e
psichedelico momento futuro, magari in Birmania o sul letto di morte o a un
ritiro con un maestro specialissimo.
Al centro de *L’intelligenza spirituale* sta anche un paragrafo intitolato
‘Una sequenza cruciale’. Si tratta della sequenza
contatto-sensazione-reazione, anelli della catena della produzione
condizionata (pa!iccasamuppada), una serie di fattori che spiegano la
formazione della sofferenza che ci struttura partendo dall’ignoranza fino a
ciò che ci fa nascere e dunque fino a vecchiaia e morte, passando per il
processo percettivo, contatto-sensazio-nereazione appunto, attraverso cui
non solo vediamo il mondo, ma lo costruiamo e costruiamo la nostra vita e
dunque il nostro kamma.
L’invito di Corrado è sempre molto pragmatico, si tratta dunque di vegliare,
nel senso di essere svegli e non di controllare, sulla soglia delle
percezioni e cioè quando entriamo in contatto visivo, auditivo, tattile,
olfattivo, gustativo o di pensiero con un oggetto, si apre per noi un’ampia
zona di pratica e dunque di libertà. Quando vedo qualcosa, posso soffermarmi
sul semplice vedere e sull’osservazione dell’immediata sensazione
piacevole, spiacevole, indifferente, anziché passare automaticamente a una
cieca reattività alla sensazione. Allora si apre, sulla soglia della
percezione, un vasto spazio in cui è possibile notare la formazione del
giudizio e dell’intenzione e dunque osservare la formazione del nostro
futuro kamma perché, come dice il Buddha nel Dhammapada:
“(.) la sofferenza ci accompagna quando sventatamente parliamo o agiamo con
mente impura” così come: “(.) ci segue il benessere quando parliamo o agiamo
con purezza di mente”.
Un’altra caratteristica dell’insegnamento di Corrado è quella di segnalare
il carattere gioioso del cammino verso la liberazione. Nel capitolo
*Impermanenza condizionalità e gioia* de ‘L’intelligenza spirituale’ si
parla della duplice gioia generata dalla comprensione profonda
dell’impermanenza. Svelare l’impermanenza è svelare che il flusso
continuamente cangiante delle cose è incessante, ma non incurante e cioè
non è dominato dal caos o dal caso, ma dalla legge della condizionalità e
dell’interdipendenza, secondo cui azioni negative favoriscono il nascere di
nuove situazioni negative, mentre azioni salutari favoriscono il nascere di
situazioni positive e di benessere.
E la gioia che nasce da questo svelamento è tutt’una con la vita stessa
perché ci si accorge, delicatamente e con pudore, che la vita diventa più
serena, più sana e dunque più gioiosa; non solo, la duplice gioia è anche la
pace che nasce senza più condizioni, la spaziosità di sapersi noi stessi
impermanenti, noi stessi soggetti al farsi e disfarsi delle onde della
condizionalità, la spaziosità di abbandonarsi al dissolversi come onde e
essere mare e il suo obbediente felice silenzio. Ci sono fasi nella pratica
della vita e se a un certo punto lo sguardo, disincantato dal-l’esterno, si
volge dentro di noi e verso l’incontro con questo sconosciuto che siamo
noi, qualche chilometro dopo si sente che anche questo è ancora troppo
esterno e che lo sfondo di spaziosità serena su cui i fenomeni sorgono, si
trasformano e passano si fa ora in primo piano e noi stessi diveniamo un
fenomeno che sorge, che si trasforma, che passa. E in tutto questo c’è
gioia, leggerezza, libertà e un grande merito dell’insegnamento di Corrado è
quello di ricordarcelo, di ricordarci che l’impermanenza come il carat-47
tere insoddisfacente e l’insostanzialità dei fenomeni, compreso il fenomeno
noi stessi, sono buone notizie.
Ricordo che durante una vacanza su un’isola del sud dell’Italia, mi sedevo
ogni sera in cima al muretto della casa a guardare lo spettacolo del
tramonto. Una sera mi raggiunsero due turiste straniere, forse incuriosite
dalla mia immobilità. Si sedettero accanto a me sul muretto e mi chiesero
se stavo osservando il tramonto e io risposi: “Sì, ce n’è uno diverso ogni
sera” e scoppiammo a ridere tutte e tre all’unisono, come fanno i gabbiani
da sempre ogni sera.
Ecco, i libri e i discorsi di Dhamma dicono in fondo sempre le stesse cose
eppure noi non ci stanchiamo mai di ascoltarli perché come l’alba o il
tramonto, come la primavera o l’inverno sono nuovi ogni volta eppure gli
stessi dall’inizio dei tempi e come il punto da cui si guarda un tramonto
non lo cambia, ma ci svela nuove, insospettate prospettive, così ogni
insegnante di Dhamma ci svela nuovi modi per essere Dhamma, per fare della
vita una Divina Commedia o un disegno che a poco a poco si rivela, sempre
più misterioso e sempre più invitante. Invitante a che? Ma al viaggio
naturalmente, perché come dice Suzuki Roshi citato in Attenzione saggia
attenzione non saggia:
Questo amore per la pratica del mettere fine alla sofferenza, può darsi che
sia tutto il risveglio che tu desideri, tutto il risveglio di cui hai
bisogno, e che questo tipo di risveglio, rappresentato dall’amore per la
pratica, vada al di là di tutti i tuoi sogni sul risveglio.
Dicevo che i libri iniziano dal centro e poi si disperdono fino a toccare
l’inizio e l’ultima parola. L’intelligenza spirituale termina con un canto
alla gratitudine, anche questa non condizionata, quel genere di gratitudine
luminosa che non guarda più all’oggetto di cui esser grati e che è perciò
tutt’uno con la compassione, perché se non si può essere grati al male e
alla violenza si può essere grati agli insegnamenti che in essi sono
nascosti e alla compassione che nasce dal sapere che il male e la violenza
non sono che forme estreme di sofferenza e che rispondere al male che ci
capita con un investimento ancora maggiore di fiducia è l’unica risposta
salutare, perché il bene e il male non sono che altre forme del piacevole e
dello spiacevole che continuamente si presentano alla soglia dei sensi e
conviene assaporarli, senza discutere, senza litigare con la vita, perché
chi lo sa che non abbiano ragione le streghe di Machbeth: “Il bello è
brutto; il brutto è bello” e chissà che assaporare tutto non sia affatto
passività, ma anzi preparazione al balzo nella retta azione, come fa il
leone nella foresta.
L’intelligenza spirituale si apre con una dedica: “A Neva e Giorgino” e cioè
si apre e si chiude con la gratitudine, gratitudine di aver incontrato
l’amore, di aver visto sbocciare questo amore in un terzo essere, di
riconoscere in loro due maestri di gioia e due compagni di sofferenza. Il
libro termina con un luminoso grazie per le cose così come sono, senza
alcuna correzione, senza alcuna eccezione e si sa a questi luminosi grazie
tutta l’esistenza risponde.
Quello che in questi anni di pratica con Corrado ho più di tutto imparato è
il paziente lavoro di rispetto e di artigianato con le emozioni e dunque con
le relazioni, è un continuo ripetuto onore alla mente e alla sua
malleabilità, al suo essere specchio imparziale, al suo vuoto. E se ora
davanti ai suoi libri mi chiedo che visione mi nasce nel cuore, attraverso
le sue indicazioni, del sogno di una vita senza attaccamento e avversione,
be’, è la visione di una vita dove il gioco tra sfondo e figure si
capovolge, dove l’io è una forma di tu, da cui fare un passo indietro e da
osservare come si osserva un bambino stanco o capriccioso, con calore e
accoglienza, e dove allo svuotamento dell’io corrisponde un gioioso,
spontaneo essere al servizio. Non come impeccabiili maggiordomi, ma come
fontane, aperte, disposte alla sete di chi passa e poi se ne va, sempre
piene, perché una volta svuotate, la pioggia dall’alto di nuovo le
riempirà.
————-
*Attenzione saggia attenzione non saggia. Spiritualità sperimentale,
Magnanelli, euro 6,50. ** L’intelligenza spirituale, Ubaldini Editore, Roma,
euro 12,50.
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