Un tè con Peter Higgs

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Un tè con Peter Higgs

A colloquio con lo scienziato che ha dato il nome a una delle particelle più cercate dai fisici di
tutto il mondo. La versione originale dell’intervista è stata pubblicata sul n. 8 di “Asimmetrie”,
rivista dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (INFN), nel giugno 2009

intervista di Vittorio Del Duca

traduzione e sintesi a cura di Francesca Scianitti

Higgs è il nome di una particella, di un modello e di un meccanismo matematico, ma è soprattutto il
nome del protagonista di un’affascinante avventura concettuale che ha portato a sintetizzare con
coerenza e bellezza matematica le scoperte di numerosi e importanti fisici della seconda metà del
Novecento. Il meccanismo di Higgs è l’intuizione finale, la soluzione elegante e l’invito alla
scoperta della prova sperimentale, il bosone di Higgs. Vittorio Del Duca ha conosciuto Peter Higgs
quando, già fisico teorico, lavorava a Edimburgo prima di trasferirsi ai Laboratori Nazionali di
Frascati dell’INFN, il cuore della ricerca sulle particelle in Italia. Il loro rapporto di amicizia
è stato lo spunto per una conversazione informale a casa di amici comuni sulla genesi di un’idea che
dalle premesse alle ultime conseguenze anima la comunità da quasi 50 anni. Oggi, con l’avvio di LHC,
quella stessa idea sta offrendo per la prima volta ai fisici di tutto il mondo l’occasione di
completare il quadro rappresentativo delle particelle elementari e delle loro interazioni. È
riportato in queste pagine solo un estratto del lungo dialogo; nella versione integrale
dell’intervista, pubblicata sul sito di “Asimmetrie”, è ripercorso con cura di dettagli storici e
scientifici il ricco racconto di un’intuizione.

La storia della sua fama ha inizio negli anni sessanta. A noi oggi sono noti i presupposti di certe
intuizioni, ma per lei e per i fisici della sua generazione che cosa era già chiaro e che cosa,
invece, era completamente avvolto dall’oscurità?

Il mio coinvolgimento nella fisica delle particelle ebbe inizio con l’assegnazione della docenza a
Edimburgo, nel 1960. Già prima di assumere quell’incarico, tuttavia, ebbi l’occasione di entrare in
contatto con alcuni membri della comunità dei fisici delle particelle, partecipando alla Scuola
Estiva Scozzese al college di Newbattle Abbey, fuori Edimburgo. E nella cripta del college, di
notte, un gruppo di studenti era solito discutere di fisica: erano Cabibbo, Glashow, Veltman e Derek
Robinson. Da parte mia, non potei partecipare alle loro discussioni, perché in quanto membro del
comitato organizzativo mi fu assegnato il compito di acquistare e custodire il vino per la cena e
dovevo alzarmi presto! Anni dopo, quando conobbi Cabibbo personalmente, mi confidò che le
conversazioni notturne alla Scuola Estiva erano state lubrificate da parecchio vino trafugato dal
mio stoccaggio davvero poco sicuro. Ed ecco come cominciò.

Come iniziò a dedicarsi agli argomenti che la portarono a concepire il meccanismo di Higgs?

Iniziata la docenza a Edimburgo, quello stesso anno, ebbi l’occasione di leggere l’articolo di
Yoichiro Nambu (premio Nobel per la fisica 2008 con Makoto Kobayashi e Toshihide Maskawa) e Giovanni
Jona Lasinio (sulla rottura spontanea della simmetria chirale): l’idea che vi era suggerita mi
affascinò a tal punto che decisi di dedicarmi a questo campo di ricerca. In seguito, Jeffrey
Goldstone mostrò che quando una simmetria è rotta spontaneamente in una teoria relativistica, si
ottengono particelle con massa nulla, i bosoni di Goldstone. Lo stesso Goldstone, Abdus Salam e
Steven Weinberg pubblicarono la dimostrazione di questo teorema su “Physical Review” nel 1962. Ciò
turbò molte persone e anche me, perché se dalla rottura spontanea ci si aspettano particelle senza
spin prive di massa, queste dovrebbero essere semplici da produrre e da rivelare. Tuttavia, non se
ne aveva alcuna evidenza sperimentale. Il mio primo breve articolo del 1964 stabiliva un modo per
svincolarsi dal teorema di Goldstone, combinando la rottura spontanea di simmetria con una teoria di
gauge. Così, l’articolo breve arrivò sulla scrivania dell’editor di “Physics Letters” al CERN e ne
fu accettata la pubblicazione. L’avevo scritto molto rapidamente: c’erano infatti segni di poca cura
nella scrittura. Realizzai quindi che il passo successivo doveva essere osservare che cosa accade
nell’esempio più semplice possibile, ossia in elettrodinamica quantistica: la settimana successiva
scrissi il secondo articolo ed ecco ciò che prese il nome di modello di Higgs.

Come fu preso questo risultato dalla comunità dei fisici delle particelle?

L’articolo, intanto, fu rifiutato… (ride). Inviai anche questo secondo articolo all’editor di
“Physics Letters” al CERN, il quale, per qualche ragione che non capisco ancora oggi, aveva
accettato il primo. Beh, fu enigmatico per me che nel primo articolo accettasse la semplice
rappresentazione matematica del fatto che c’è un modo per evitare il teorema di Goldstone e che
rifiutasse invece un articolo nel quale davo un esempio e mostravo come questo accadeva
effettivamente. E l’esempio era molto più interessante, dal punto di vista della fisica. Ricevetti
un cortese rifiuto e l’invito a inviare l’articolo a un’altra rivista. Estesi l’articolo, ma non lo
rimandai indietro; conclusi che non avevano capito di cosa stavo parlando e decisi di mandarlo
dall’altra parte dell’Atlantico. La versione estesa fu così pubblicata su “Physical Review Letters”.
Quando accettò l’articolo, il referee mi chiese di commentare il lavoro dei fisici belgi Robert
Brout e François Englert. Il giorno in cui il mio articolo arrivò all’ufficio editoriale di
“Physical Review Letters”, infatti, era lo stesso giorno in cui pubblicarono l’articolo di Englert e
Brout sulla generazione di massa di particelle a spin unitario: era sostanzialmente la stessa cosa,
ottenuta però in un altro modo. Vent’anni dopo incontrai Nambu per la prima volta; mi disse che era
stato lui ad accettare il mio articolo per “Physical Review Letters”. Penso che fosse leggermente
seccato di non averci pensato lui stesso, ma pare che uno dei suoi figli fosse stato molto malato e
questo l’aveva fatto rimanere un po’ indietro. Diversamente sono convinto che avrebbe trovato la
stessa cosa piuttosto rapidamente.

Ok, che cosa accade dopo? Ad eccezione del referee di “Physics Letters”, come fu accettato dalla
comunità nel suo insieme?

Una delle prime reazioni fu una lettera di Walter Gilbert (biochimico e fisico statunitense, premio
Nobel per la chimica nel 1980), nella quale si diceva che mi sbagliavo. Opponeva alcune obiezioni
tecniche alle quali feci fatica a rispondere subito, perché avevo fatto due cose che non si
conciliavano ancora esattamente. Ebbi effettivamente da considerare le conseguenze del mio modello
nella teoria quantistica e non ci fu nulla da fare fino all’anno seguente, quando presi un anno
sabbatico in North Carolina. E questo ci porta all’estate del 1965. Dopo avere lavorato sui dettagli
del modello, scrissi l’articolo esteso che fu pubblicato su “Physical Review” nel 1966; la fase
successiva, in quanto a reazioni, venne la primavera seguente. Il 15 e il 16 marzo del 1966 furono
praticamente i giorni più faticosi della mia vita: tenni un seminario all’Istituto a Princeton il
15, ma ero stato precedentemente in contatto con Stanley Deser per i miei interessi sulla gravità e
lui, sapendo che stavo andando dall’altra parte dell’Atlantico, mi propose un talk a Boston. Così,
il seminario del giorno seguente fu ad Harvard.

Come un pianista in grand tour

Sì, l’esperienza di Princeton mi intimidì inizialmente. Ma nonostante Klaus Hepp, un teorico di
campo assiomatico, mi avesse avvisato che stavo per andare a dire delle fesserie, sopravvissi al
seminario e mi fu detto, più tardi, che se non altro avevo convinto il fisico matematico Arthur
Wightman che ciò che avevo fatto era corretto e che le teorie di gauge erano un’eccezione agli
assiomi di questo teorema (di Golstone).

Ok, ma da parte delle persone che erano più coinvolte con la teoria di gauge, con la teoria della
particelle, ci fu qualche reazione in quegli anni?

Avvenne il giorno dopo, ad Harvard. Il seminario di Harvard fu più una conversazione che un
monologo. Alla fine del seminario, Sheldon Lee Glashow (Nobel per la fisica 1979 con Steven Weinberg
e Abdus Salam per la formulazione della teoria elettrodebole) disse: “Hai ottenuto un bel modello,
Peter”. Ma non si accorse che la cosa aveva a che fare con il suo lavoro! (ride) Non lo disse, ma
chiaramente pensava che il mio risultato fosse giusto una curiosità. Credo che il problema fosse che
quel seminario divenne a tal punto un dialogo tra me e i membri dell’auditorio che non ebbi il tempo
di dire cosa avevo fatto con questo modello. Li convinsi del fatto che non stavo dicendo fesserie,
ma non che ciò che dicevo aveva delle conseguenze pratiche.

Quando la sua idea cominciò ad essere percepita come un’idea d’avanguardia all’interno della
comunità? Quando divenne famoso?

Divenni famoso nel 1972, dopo la conferenza al Fermilab. Uno dei miei colleghi, Ken Peach, tornò da
quella conferenza e mi disse: “Peter, sei famoso!”. Ma c’erano già state alcune conseguenze del mio
lavoro. Non so se Salam lesse mai l’articolo, ma certamente venne a sapere ciò che avevo fatto.
Weinberg ne venne certamente a conoscenza, perché nel suo articolo del 1967, che era essenzialmente
la teoria elettrodebole, usava il mio lavoro. Ebbi l’impressione in seguito che, avendo perso il mio
seminario, avesse appreso qualcosa da Bruno Zumino che era stato al seminario di Harvard: quella era
la prima volta che incontravo Zumino e certamente sapeva molto del mio lavoro e lo capiva.

Divenne quindi una lunga attesa… ? Nessuno sapeva quale massa dovesse avere il bosone di Higgs e
non era chiaro quando e dove sarebbe stato scoperto…

Sì. Penso che l’articolo cruciale, in grado di catturare l’interesse dei fisici sperimentali, sia
stato un articolo di Ellis, Gaillard e Nanopoulos del 1976, Fenomenologia del bosone di Higgs. Fu
scritto all’epoca in cui fu costruito il collisore SPS (Super Proton Synchroton, il collisore
protone-antiprotone che iniziò a operare al CERN nel 1976). Così gli sperimentali furono messi in
guardia: sapevano che avrebbero potuto trovare qualcosa nei loro dati.

So che è stato al CERN la scorsa primavera. Che impressione le ha fatto sapere che hanno costruito
una macchina che costa parecchi miliardi di qualsiasi valuta si voglia usare, euro, dollari o
sterline, per cercare qualcosa che è saltato fuori dalla sua mente?

Beh, sono soddisfatto, certo. Tuttavia, temo che non sia stata una buona tattica assumere il bosone
di Higgs come punto di forza di LHC. Penso che non sia stato saggio enfatizzare così tanto
quell’aspetto ai tempi del LEP (l’acceleratore Large Electron Positron collider, operativo al Cern
dal 1989 al 2000), anche perché i fisici sapevano che quello che il LEP stava per fare era di fatto
molto di più. Applicherei la stessa critica alla propaganda associata a LHC. Se non trovano il
bosone di Higgs, chi finanzierà più qualsiasi altra cosa?

Se posso indagare un po’ più nel personale, questo circo generato intorno al suo nome la ha
influenzata personalmente, ha avuto effetti di qualche tipo sulla sua vita personale, su di lei come
persona?

Dal lato scientifico mi ha dato una tale esagerata reputazione che quasi ha soffocato la mia
successiva attività di ricerca. Ci fu un gap, potrei dire, durante il quale non feci poi molto.
Quando tornai a essere più attivo, mi interessai alla supersimmetria, ma a quel punto ero davvero
troppo vecchio per fare cose nuove: c’era già un tale background di nuova matematica coinvolta nella
supersimmetria, che non avrei potuto assorbirlo tanto rapidamente quanto le persone che stavano
ottenendo il loro PhD e che pubblicavano gli articoli. Così alla fine lasciai perdere, all’inizio
degli anni ottanta.

Non riusciva più a concentrarsi?

No, era come se fossi diventato troppo ambizioso. Se mi fossi accontentato di lavorare su cose più
semplici avrei potuto produrre ancora, ma avendo ottenuto un successo pretendevo di dedicarmi agli
sviluppi più promettenti, come la supersimmetria, la supergravità e così via; ma non ero più in
grado di apprendere tanto rapidamente. Un secondo aspetto mi influenzò probabilmente in un altro
senso e certamente alla fine contribuì alla rottura del mio matrimonio: penso che a quel tempo mia
moglie non comprendesse a fondo i miei successi e quanto fosse importante per me ciò che facevo,
così quando cominciai a dare la priorità a ciò che riguardava la mia carriera, le conferenze e via
dicendo, più che agli interessi per la mia famiglia, il matrimonio crollò. Questo ebbe come effetto
immediato un periodo davvero poco produttivo.

Così, deve avere vissuto sentimenti contrastanti a causa della sua fama, una benedizione e una
maledizione allo stesso tempo…

Sì. Ebbe naturalmente un impatto tremendo sulla mia autostima: ora ero un fisico teorico! Un impatto
esagerato, direi… (ride) Prima del successo mi consideravo solo un outsider, perché il mio lavoro
di tesi non era affatto sulla fisica delle particelle.

Lei sa che Leon Max Lederman (premio Nobel per la fisica nel 1988 e autore di un libro sul bosone di
Higgs) ebbe l’ardire scherzoso di chiamare il bosone di Higgs, nel titolo del suo libro, The goddamn
particle, la dannata particella?

…. E l’editore non glielo permise

… per ragioni ovvie, giusto? Così lo chiamò The God particle, la particella di Dio. Naturalmente,
dato che era solo uno scherzo, non dovremmo dare alla cosa troppa importanza, ma la infastidì in
qualche modo?

Sì. Anche se non sono mai stato credente, pensai che quel titolo avrebbe potuto offendere
inutilmente. Una volta però passai la notte in un piccolo bed & breakfast nel nord della Scozia,
prima di prendere un traghetto per le Isole Orcadi. C’era una buona collezione di libri in quel
posto, e cosa vi trovai se non La particella di Dio?!

(La versione originale di questo articolo è apparsa a giugno 2009, sul n.8 di “Asimmetrie”, rivista
dell’Istituto nazionale di fisica nucleare. Il testo integrale è disponibile sul sito di
“Asimmetrie”: www.asimmetrie.it)

lescienze.it

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