Un tempo per amare secondo il buddhismo

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Un tempo per amare

(del venerabile Ajahn Sumedho)

© Ass. Santacittarama, 2006. Tutti i diritti sono riservati.

SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.

(Estratto del libro “Così com’è”, su gentile concessione dell’Editore
Ubaldini)

Se si pensa al valore che il Buddhismo attribuisce alla consapevolezza e
alla saggezza, si può avere l’impressione che la vita spirituale sia un
tentativo di guardare tutto con occhi spietatamente obiettivi. Anziché
sentire le cose, ci si chiede di vedere tutto come anicca, dukkha e anatta
(impermanente, insoddisfacente e impersonale). Questo è ciò che può
sembrare. Ma ricordate, l’esperienza della vita attraverso il cuore è
un’esperienza d’amore: per cui l’amore e la devozione non vengono mai messi
da parte.

Se contempliamo l’esperienza dell’amore come semplice anicca, dukkha e
anatta, l’impressione è di una certa freddezza. L’oggettività tuttavia è
semplicemente il modo di vedere le cose in prospettiva, per evitare che
l’amore sia qualcosa che acceca. Se siamo attaccati all’idea dell’amore
possiamo essere totalmente ciechi alla sua realtà. Possiamo essere molto
esaltati dal parlare dell’amore o dal meditarvi su, cercandolo o
pretendendolo dagli altri, o sentendocene in qualche modo lasciati fuori. Ma
cos’è l’amore, considerato dal punto di vista della nostra esistenza?

Sul piano emotivo, si può voler avere un senso di particolare unità, o
magari dirigere i propri sentimenti su una specifica persona col desiderio
di stabilire un rapporto d amore particolarmente intenso. L’amore può anche
essere astratto, amore per l’umanità, amore per tutti gli esseri senzienti,
amore per Dio, amore per un’idea o un ideale.

La devozione viene dal cuore, non dalla ragione. Non potete indurvi a
provare amore o devozione solo perché vi piace l’idea. È quando non siete
attaccati, quando il vostro cuore è aperto, libero e ricettivo, che voi
cominciate a sperimentare cos’è il puro amore. La gentilezza amorevole, la
compassione, la gioia compartecipe, l’equanimità (il regno dei quattro stati
mentali divini, le dimore divine, i brahma-vihara) vengono da una mente
vuota. Non da una sterile posizione di semplice annullamento ma da un cuore
che non è illuso, non è accecato dalle idee di sé o degli altri, né da
passioni quali che siano.

Potete pensare che la vita spirituale sia fredda e priva di cuore perché in
una comunità di samana come questa, in cui si pratica la via del controllo e
della disciplina, non usiamo aperte manifestazioni di amore e di gioia.
Questa comunità non ribolle di slanci di devozione. È estremamente formale e
controllata nel modo di presentarsi e di esprimersi. Ma non è
necessariamente una negazione dell’amore. Con la consapevolezza, col modo in
cui ci rapportiamo ai nostri corpi, al Sangha, alla popolazione laica, alla
tradizione e alla società nel suo insieme, c’è apertura, gentilezza
amorevole e ricettività. C’è affetto reciproco, una gioiosità e una
compassione tangibili.

È sempre anicca e anatta, ed è dukkha, nel senso che in sé non è il fine di
nulla. Niente è soddisfacente a livello di identità e di attaccamento. Ma
quando il cuore è libero dall’illusione del sé, nasce, nella pura gioia
dell’essere, la qualità dell’amore. Non ci si aspetta che sia qualcosa o
qualcuno, né ci si aspetta che duri o che sia stabilmente presente. Né è una
cosa di cui ci si può fare un’idea. È solo il naturale modo d’essere delle
cose. Per cui, quando contemplate in tale maniera, state praticando la via
della fede, della fiducia e della devozione.

Quando parliamo di fede, fiducia, confidenza, non parliamo di cose che si
possono afferrare concretamente. La fede non è qualcosa che si può creare.
Si possono pronunciare le parole, ma avere veramente fede e fiducia nel
Dhamma significa essere pronti a lasciar andare qualsiasi affermazione o
pretesa o attaccamento, quale che sia. A quest’esperienza della fede
arriviamo solo quando esaminiamo e comprendiamo il Dhamma o il vero modo
d’essere delle cose. Se noi veramente contempliamo e vediamo il Dhamma, in
quel momento c’è fede, c’è questo forte senso di totale affidamento e
fiducia nella verità.

Se state praticando la meditazione vipassana e vi sentite sempre più
spaventati, ansiosi o tesi, o provate un senso di aridità emotiva, non state
praticando nel modo giusto. È probabile che stiate usando la tecnica come un
modo per reprimere le vostre sensazioni o negare le cose. Così finite col
sentirvi più tesi, scettici, incerti. C’è attaccamento a una qualche idea al
riguardo. Quanto più noi vediamo realmente e comprendiamo in pieno il modo
in cui stanno le cose, tanto più possediamo la qualità della fede. La fede
aumenta, diventa una fiducia totale. Quando si parla di arrendersi, di
rinunciare, di lasciar andare, ciò significa fiducia totale. Non è un
semplice cogliere un’occasione o affrontare un rischio, è qualcosa che passa
attraverso l’esperienza della fede.

Il sentiero è qualcosa che si coltiva. Occorre sapere dove siamo e non
cercare di diventare qualcosa che pensiamo ci piacerebbe essere; dobbiamo
praticare con la realtà qual è ora, senza darne un giudizio. Se vi sentite
tesi, nervosi, disorientati, delusi rispetto a voi stessi, o alla
tradizione, o al maestro, o ai monaci o alle monache, o a quello che sia,
cercate di riconoscere che ciò che è in questo momento è sufficiente. Siate
pronti ad ammettere semplicemente, a riconoscere la situazione di fatto,
anziché indulgere a credere che ciò che sentite sia comunque un’accurata
descrizione della realtà, o che sia sbagliato e che non dobbiate sentirlo a
quel modo. Questi sono i due estremi. Ma coltivare la via vuol dire
riconoscere che tutto ciò che è soggetto a nascere è soggetto a morire. E
non è un modo deprimente o freddo di coltivare il sentiero, anche se così
potrebbe sembrare.

Potreste pensare che dovete soltanto lasciar andare tutte le vostre
sensazioni per vedere che l’amore nel vostro cuore è anicca, dukkha, anatta.
Provate amore per il Buddha e pensate: “Oh, è solo anicca, dukkha, anatta.
Non è altro!”. Provate amore per il maestro e pensate: “È solo anicca,
dukkha, anatta. Non attaccarti al maestro!”. Provate amore per la
tradizione: “È anicca, dukkha, anatta, non attaccarti alle tradizioni né
alle tecniche”.

Non attaccarsi a nulla può essere semplicemente un modo di reprimere tutto.
Non è necessariamente lasciar andare o non attaccamento, può essere
semplicemente assumere una posizione. E se assumete una posizione e agite in
base a quella, tutto ciò che siete destinati a provare è negatività e
stress. “Non dovreste attaccarvi a nulla, non dovreste provare nulla;
provare una cosa qualsiasi è solamente anicca, dukkha, anatta”. Tutto ciò
vuol dire prendere esclusivamente le parole e usarle come un randello, un
pesante bastone sulla propria testa. Non vuol dire riflettere, aprirsi,
avere fede.

La pratica di metta è una bella pratica devozionale, altamente raccomandata
nel Buddha-Dhamma. È la gentilezza amorevole. In quanto esseri umani, noi
siamo creature dal sangue caldo; proviamo amore. Fa parte della nostra
umanità. Proviamo simpatia l’uno per l’altro; amiamo stare con la gente;
amiamo essere gentili; traiamo piacere dal cucinare il cibo e offrirlo agli
altri. Proviamo gioia nel renderci utili. Potete vederlo nell’usanza della
dana delle comunità asiatiche. Quando i gruppi dello Sri Lanka vengono qui
coi loro piatti e il curry, hanno gli occhi luminosi. È la gioia del dare.

Ora, è un’ottima qualità. È bello vedere qualcuno che magari è ‘ stato su
tutta la notte a preparare deliziosi cibi da offrire a qualcun altro (non
cucinano per se stessi). Bene, che cos’è questo come esperienza umana? È
qualcosa di impuro, o è essere attaccati al piacere e alla felicità del far
le cose per gli altri? Questo è l’aspetto più bello dell’umanità, il
semplice saper amare, donare, condividere, essere generosi.

Provate a contemplare quale sarebbe il piacere più grande se si fosse la
persona più ricca del mondo. Cos’è che in quella condizione potrebbe dare la
massima gioia? Prendere tutto quello che si vuole? No: avere l’opportunità
di regalare tutto, siete d’accordo? Quella sarebbe la massima gioia della
ricchezza e del benessere: poterlo dare via come dana, in dono; mentre
essere ricchi e non riuscire a dare sarebbe un vero peso. Che fardello
sarebbe essere la persona più ricca del mondo ed essere egoista e tenersi
tutto stretto, tutto per sé. La gioia della ricchezza è nella capacità di
condividerla e donarla senza nessun secondo fine o pretesa egoistica.

Per cui, c’è questo di bello nella nostra umanità: possiamo sperimentare la
gioia del dare. Ed è qualcosa che sperimentiamo tutti quando realmente diamo
qualcosa, quando aiutiamo qualcuno senza alcuna richiesta egoistica o
pretesa d’essere ricambiati. A quel punto proviamo gioia. Essa è sicuramente
una bella esperienza umana… però non ci attendiamo che ci renda felici per
tutto il resto della vita.

La gioia della gentilezza e della generosità non e permanente, non ci fa
permanentemente felici; né ci aspettiamo che ciò accada. Se così fosse, non
sarebbe più dana, sarebbe aver fatto un contratto. Non sarebbe un atto di
generosità, ma un acquisto.

La vera gioia viene dal dare e non curarsi se qualcuno lo riconosce o
addirittura lo sa. Non appena si fa avanti il sé (ad esempio: “Ti dono
questo dana ed è molto importante che tu sappia chi te lo sta donando: io,
sono io che te lo dono”) ecco che la gioia che viene dal dare si riduce di
molto. Se io mi preoccupo tanto che tu riconosca e apprezzi la mia
generosità e la mia bontà, non posso provare uno stato d’animo gioioso. Non
si può essere felici ne provare autentica gioia di vivere se c’è
attaccamento all’idea che le proprie azioni debbano essere riconosciute. Non
c’è niente di male nel fatto che la gente apprezzi la bontà e la generosità
di qualcun altro, ma quando non lo pretendiamo. È allora che c’è la gioia.

L’amore romantico è generalmente basato sull’illusione di un sé e sulla
richiesta di qualcosa in cambio. L’amore spirituale, da parte sua, è amore
altruistico o amore universale ed è rappresentato dai brahma-vihara (metta,
karuna, mudita, upekkha). Un tale amore è un’esperienza di unione. Connette,
unisce. È una comunione. L’odio è l’esperienza della separazione. Quando
odiamo non c’è alcuna unione, comunione o unità. L’odio separa, divide,
discrimina. L’amore unisce, e noi desideriamo l’unità, poiché vivere in un
mondo d’odio, discriminazione e separazione è una condizione ben triste.

La comunità è una comunione, un Sangha, un tutto. Se siamo interiormente
divisi dal Sangha, se odiamo il Sangha (“Odio quella monaca, odio quel
monaco; e non mi piace Tizio, non mi piace Caio”) ecco che non è più
comunità, è dis-unità. La sensazione è quella dell’alienazione, della
separazione, dell’accentuazione dell’io e del tu, delle tue colpe e dei miei
sentimenti, e della mia rabbia per le tue colpe. Può anche essere il mio far
notare le cose che in te sono sbagliate; le cose che non vanno nelle
monache, le cose che non vanno nei monaci, le cose che non vanno negli
anagarika, le cose che non vanno e basta. Attaccarmi a queste percezioni mi
farà sentire alienato, separato, irritato, scontento e depresso.

Talvolta la mente entra in uno stato molto negativo in cui ogni cosa
infastidisce. Qualunque cosa le persone facciano non sembra abbastanza ben
fatta. Quando siete in quello stato d’animo, niente sembra che vada bene,
che siano i gatti, il sole o la luna: la mente è in una condizione di
divisione, di separazione e negatività. Vi sentite separati da tutto ciò che
vedete, e nessuna comunione o unione è possibile fintanto che voi vi
attaccate e vi identificate con quell’atteggiamento mentale. Quando siete in
uno stato d’animo amichevole non ha veramente importanza che uno non sia
particolarmente buono o non faccia esattamente quel che dovrebbe. Certo, ci
sono sempre delle cosette, degli aspetti, dei particolari che non vanno come
dovrebbero, ma quando siete in una disposizione affettuosa, non è poi così
importante.

Per cui l’esperienza dell’amore viene perché siete pronto a superare le
differenze di personalità e le divisioni che esistono nel regno
condizionato, in favore di un senso di comunione, di unione, di unità. Ci
sentiamo uniti come fratelli e sorelle in una comune esperienza di
vecchiaia, malattia e morte anziché tendere a rilevare le differenze o a
notare chi è meglio di chi.

Nel momento in cui prendiamo rifugio nel Sangha, stiamo prendendo rifugio
fra coloro che hanno praticato rettamente (supatipanno), fra coloro che
hanno praticato in maniera diretta (ujupatipanno), coloro che hanno
praticato con profondità di visione (ñayapatipanno), coloro che hanno
praticato con integrità (samicipatipanno). Anziché prender rifugio negli
americani, negli inglesi, negli australiani, o negli uomini o nelle donne, o
nelle monache o nei monaci, prendiamo rifugio in coloro che praticano il
Dhamma, nei buoni, i semplici, i sinceri.

Noi abbiamo la tendenza tanto all’unione quanto alla separazione, e siamo
lucidamente consapevoli di entrambe. Occorre riconoscere come Dhamma il modo
in cui stanno le cose. C’è l’unirsi e c’è il separarsi, e con la chiara
consapevolezza non ci identifichiamo né con l’uno né con l’altro estremo.
C’è il tempo per l’unione e la comunione, il tempo per la non
discriminazione, per la devozione, per la gratitudine, per la gioia.

Ma c’è anche il tempo per la separazione e la discriminazione, per esaminare
ciò che è sbagliato. C’è la necessità di osservare i difetti, esaminare la
rabbia, la gelosia, la paura, e di accettare e comprendere tali esperienze
emotive, anziché giudicarle e considerarle come sé e come qualcosa che non
si dovrebbe avere. È la natura dell’essere umano: nasciamo in una forma
separata e tuttavia possiamo integrarci. Possiamo realizzare l’unità, la
comunione, l’integrazione; ma possiamo anche discriminare.

Perciò il rifugio nel Buddha è la capacità dell’essere umano di riconoscere
entrambe le cose e di rispondere appropriatamente. Possiamo contemplare i
difetti e i problemi della vita come parte della nostra esperienza umana,
anziché in modo personale. Non stiamo più facendo formazioni, non stiamo
magnificando o esaltando, ossessionati da ciò che è sbagliato, in
quest’ottica di unità e separazione. Questo è il modo in cui stanno le cose,
il Dhamma.

Il monaco e la monaca buddhiste sono una negazione dell’amore? La disciplina
del vinaya è solo un mezzo per annullare i sentimenti? Può essere. Possiamo
usare la disciplina del vinaya e la tradizione monastica semplicemente come
un mezzo per evitare le cose. Può darsi che i monaci abbiano semplicemente
paura delle donne… Può darsi che le monache siano semplicemente
pietrificate dagli uomini, e che si siano fatte monache per non dover
affrontare i propri terrori e le proprie ansie rispetto al rapporto con gli
uomini… E naturalmente molti laici la pensano così. Pensano che tutti noi
siamo qui per un’incapacità a confrontarci col mondo reale.

Ma è veramente così la situazione? Se lo è, se è per questo motivo che siete
un monaco o una monaca, vuol dire che lo siete per le ragioni sbagliate.
L’essere monaci non è un mezzo per evitare la vita e la realtà, ma un mezzo
per riflettere su di esse. Poiché, nel controllo e nella dignità del
controllo, la via del monachesimo è un’espressione d’amore per tutti gli
esseri: uomini e donne, tanto quelli che vivono dentro che quelli che vivono
fuori. Ora non scegliamo più un’unica persona su cui concentrare la nostra
attenzione e cui dedicarci, ma dedichiamo noi stessi a tutti gli esseri.

Mi rendo conto che se fossi un padre di famiglia, tutta la mia attenzione
sarebbe rivolta a mia moglie, ai miei figli e agli altri familiari più
prossimi. Questo è il risultato del matrimonio e il senso della famiglia.
Essi hanno la priorità. I rapporti devono tenere conto delle persone di cui
col matrimonio si è diventati responsabili.
Si può sopravvivere di elemosine, vivere contando solo sulla fede e sulla
fiducia nella benevolenza che la gente ha nei nostri confronti, per il fatto
che nutriamo amore e rispetto per tutti gli esseri. L’amore e il rispetto
per tutti gli esseri sono all’origine delle elemosine che ci sostengono
nella nostra vita di mendicanti.
E la cosa divertente è che il potere del Sangha buddhista è così forte che
anche se personalmente odi tutti gli esseri, le offerte continuano ad
arrivare! Il potere della veste sembra talmente forte che, anche se come
singolo monaco o monaca odiate qualcuno, continuerete a essere nutriti da
esseri amorevoli. Questo a motivo delle paramita del Buddha. Ciò non vuol
dire che uno debba sviluppare l’odio o giustificarlo in qualsiasi maniera.
Piuttosto è una riflessione sul potere di una tradizione molto saggia
fondata dal Buddha. Quando l’apprezzerete, proverete realmente amore e
fiducia.

Perché questi monasteri operano qui, in Inghilterra? Perché dovrebbero
operare in un paese non buddhista? Perché chiunque dovrebbe spedire un
assegno postale, o portare un sacco di patate o preparare un pasto? Perché
dovrebbero prendersi questo disturbo? Il motivo sono le paramita del Buddha.
La bontà dello stile di vita da lui fondato produce generosità. La
gentilezza amorevole, la compassione e la gioia della vita spirituale si
diffondono e aprono gli altri alla stessa esperienza.
È un mistero. Partendo dall’atteggiamento pratico e mondano di giustificare
la propria esistenza agli occhi della società, noi non diamo l’impressione
di fare poi tanto per chiunque sia. Molte persone pensano che noi stiamo
solo seduti e cerchiamo di raggiungere l’illuminazione per conto nostro, di
avere stati mentali gradevoli e godibili perché non riusciamo a sopportare
il mondo reale. Ma quanto più riflettete su questa vita e la comprendete,
tanto più vi rendete conto del potere della bontà, della fede, delle
paramita del Buddha, che permettono che abbia luogo una comunione in un
contesto di bontà.

E ciò non ha bisogno d’esser dimostrato, commentato e sottolineato troppo.
Parla da sé. Non dobbiamo uscire a dire alla gente: “Dovresti darci
l’elemosina poiché stiamo praticando il Dhamma e siamo discepoli del
Buddha”. Le nostre necessità sono soddisfatte generosamente poiché la gente
apprezza e rispetta la vita spirituale. Essa porta gioia e felicità nella
vita della gente, poiché noi gioiamo della bellezza degli altri e della
bontà e della benevolenza della nostra esperienza di vita.

In realtà la vita spirituale è una vita strana, una strana maniera di
vivere. Come esattamente funzioni in termini di quella che, in base al
nostro condizionamento culturale, noi consideriamo realtà, è un mistero. Ma
come Dhamma, come verità, come modo in cui stanno le cose, effettivamente
funziona. E ciò aumenta la nostra fede e la nostra fiducia nei rifugi e
nella bellezza e nella bontà della nostra vita di samana.

° ° ° ° ° °

Luang Por Sumedho è nato a Seattle, Washington. Nel 1966 si è recato in
Thailandia per praticare la meditazione e non molto tempo dopo ha preso
l’ordinazione come monaco. Si è messo al seguito di Luang Por Chah e vi è
rimasto per dieci anni. Nel 1977 ha accompagnato Luang Por Chah in
Inghilterra ed ha aiutato alla creazione del Monastero di Chithurst e poi di
Amaravati, dove è attualmente residente.

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