Un vivere amorevole

pubblicato in: AltroBlog 0

Un vivere amorevole

(del venerabile Ajahn Viradhammo)

© Ass. Santacittarama, 2007. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Traduzione di Silvana Ziviani

(Basato su un discorso tenuto al monastero Bodhinyanarama in Nuova Zelanda
nel Decembre 1998)

Buona sera. E’ bello vedere tanta gente riunita in questo bel luogo, seduta
quietamente a contemplare il Dhamma. Abbiamo appena finito un ritiro di
dieci giorni a cui hanno partecipato circa una trentina di persone e la
comunità monastica.

E’ un privilegio vivere senza dover competere, senza cose mondane o le
solite lotte della vita. Quando si ha questa opportunità si possono
osservare le cose esattamente così come sono. Si vede intorno una spaziosità
e un ambiente di fiducia e moralità, dove si favorisce il silenzio, e la
natura è presente in tutta la sua bellezza. Stare in ambienti così è un vero
privilegio.

In simili periodi si sviluppa un forte senso della comunità e di relazione
con gli altri. C’è un’attività comune perché la vita di comunità è
cooperativa non competitiva. Non c’è “Voglio arrivare al Nibbana prima di te
e se tu cerchi di superarmi ti farò lo sgambetto”.

So che se lavoro su di me, se pratico nel modo insegnato e vivo moralmente,
se seguo le regole del ritiro e l’insegnamento, incoraggerò te a fare
altrettanto. E se lo fai anche tu, incoraggi me. C’è una reciprocità di
incoraggiamento, affetto e aspirazione. Questa è una cosa che spesso manca
in una società basata sulla competizione, sul denaro e sulle comodità, in
cui la vita è una esistenza indiretta, vissuta attraverso gli altri
guardando le partite di rugby o altre forme di intrattenimento.

Credo che la vita comunitaria sia una forma d’arte che è andata perduta in
questi tempi. E’ difficile da seguire se si è stati condizionati
dall’individualismo.
Io lo fui di sicuro. Avevo la mia stanza. Mio fratello aveva la sua stanza.
Io avevo i miei dischi. Lui aveva i suoi dischi. Se avesse osato toccare i
miei dischi l’avrebbe pagata cara.

L’arte di vivere in comunità l’ho appresa diventando monaco buddhista. Come
sapete, noi cantiamo “Sangham vandeh / Rendo omaggio al Sangha”. Nel
Buddhismo con Sangham vandeh /Rendo omaggio al Sangha, si intende il “Sangha
degli esseri illuminati”. E dove ne trovate uno di questi ai giorni nostri?
Ma se portate il Sangha al suo significato ordinario, contemplate la
comunità.

Per me comunità vuol dire un senso di affetto per il luogo in cui si sta,
per gli alberi, per l’acqua che si usa, per l’aria che si respira, per il
cibo che si mangia, per le strade in cui si cammina, per i vicini, per il
calzolaio, per il droghiere, ecc. La cultura buddhista implica il senso di
sviluppare una comunità, rendendosi responsabili per tutte queste cose molto
reali.

Per vivere e lavorare in una comunità è necessario dare. Una delle grandi
virtù della cultura buddhista è dana, offerta. Alcune volte ci sono forme di
materialismo spirituale in cui si dà per ottenere una situazione materiale
migliore nella prossima vita. Dobbiamo perciò pensare cosa veramente
significhi dana o generosità.

E cosa significa metta – gentilezza e compassione – oltre che l’essere
gentile con il mio cane e con i miei figli? Come per la comunità, così per
metta si richiede un grande impegno di affetto a un livello molto pratico e
onnicomprensivo. Affetto per le strade, per l’aria, per la Nuova Zelanda.

Naturalmente questo monastero lo suscita facilmente. Quando si arriva qui si
nota subito l’affetto: l’affetto per l’architettura, per i lavori
artigianali, per il sentiero lastricato di belle pietre su cui si può
camminare. C’è anche un gran senso di responsabilità per l’armonia globale
della comunità. Cosicché vedo che non siete voi che dovete farmi contento,
ma sono piuttosto io che devo partecipare con affetto alla vostra vita, alla
mia vita e alla nostra vita comunitaria per crearvi armonia. E’ questo che
fa un anziano.

Questo monastero appartiene alla scuola di Buddhismo chiamata “Theravada”
che significa “La Via degli Anziani”. Ovviamente, nello spirito della
tradizione, ciò indicherebbe i membri anziani del Sangha ordinato che hanno
molta saggezza. Tutti noi ci stiamo muovendo verso questa direzione, perché
la vita spirituale è un movimento verso la maturità e l’assunzione della
responsabilità verso la propria comunità. Questo include la famiglia e tutti
i gruppi di cui facciamo parte.

Spesso si parla dei problemi della società come se fossero problemi globali
o nazionali. Ma non sono problemi nazionali, sono problemi individuali. E’
sempre l’individuo che non è d’accordo o che si oppone. Diventa un problema
nazionale se la psiche dell’intera nazione si volge in quella direzione. Ma
le soluzioni sono sempre individuali. Riguardano sempre tu e me che
lavoriamo insieme. Spesso si dice: “Be’ aspetto che venga l’altro tipo per
riciclare la plastica e poi cominceremo”, ma perché aspettare? Perché non
cominciare da soli?

L’insegnamento buddhista sulla compassione, sulla empatia e sull’affettuosa
partecipazione alla vita, sono come grandi specchi posti davanti a sé.
Cerchiamo di provare empatia per tutti ma può essere una grande sfida. Il
primo monaco che incontrai mi disse: “Non considerare le parti
dell’insegnamento
buddhista con cui sei d’accordo. Sono quelle parti che trovi difficili da
seguire che sono toste”. Queste sono come specchi che sfidano la mente.

Perciò se non mi trovo d’accordo con qualcuno o se odio quelli che inquinano
e sono sempre pieno di rabbia anche in ciò che è male, allora gli
insegnamenti del Buddha dicono: “No, questo non è il mio insegnamento. Se
vuoi chiamati pure buddhista ma questo non è il mio insegnamento”. Ci
guardiamo allora dentro e ci chiediamo: “Perché non riesco a vivere
all’altezza
di questi modelli; cosa c’è nella mia vita che me lo impedisce?”

La grande sfida è fare pratica spirituale partecipando alle difficoltà della
comunità. Usare le riunioni di comitato come un monastero o l’avversario
come un maestro è un modo per introdurre la pratica spirituale nella
soluzione dei problemi. Ed è una cosa molto gratificante. E’ difficile
anche. E’ molto più facile cavarsela dicendo: “Che ci pensino loro. Stasera
mi godo la partita di pallone”. Certe volte è necessario fare così, ma
questo modo di far parte della comunità lasciando che gli altri si occupino
degli alberi o dell’acqua non è molto gratificante.

Certe volte il buddhismo sembra incoraggiare un atteggiamento di “Lasciatemi
stare solo, sto cercando di raggiungere l’illuminazione”. Perfino la pratica
di metta (gentilezza morale) può avere questa connotazione.

State seduti lì dicendo: “Che tutti gli esseri stiano bene e che siano
liberi dalla sofferenza” quando qualcuno interrompe la vostra meditazione e
voi lo trattate in malo modo. E’ più facile idealizzare la compassione
universale che viverla in pratica. Avere a che fare con qualcuno che non vi
va proprio giù ed esserne consapevoli, questa è una pratica spirituale.

Questo non significa che non sentiamo l’alienazione, il risentimento, la
rabbia o la paura. Sono condizioni naturali del cuore umano. Ma prendere
rifugio nell’alienazione o nel risentimento o considerarli una meta da
raggiungere, questo naturalmente rovina la comunità. E rovina anche la mia
pratica spirituale.

Osservare con compassione in noi stessi le cose non salutari e scorrette è
la via buddhista perché abbiamo nel cuore sia ciò che è divisivo che ciò che
è unificante. Li abbiamo entrambi perché siamo esseri umani e osservare con
affetto il nostro mondo interno significa prendersene anche la
responsabilità. Ma non dobbiamo prendere rifugio in tutto ciò.

Certe volte, quando facciamo la pratica di metta bhavana sulla gentilezza
amorevole cominciamo con noi stessi o con coloro che ci sono più cari, poi
irradiamo questo amore fuori verso gente più neutra e poi cerchiamo di
portare alla coscienza quelli che consideriamo nemici. E questo può essere
difficile perché è collegato alla memoria. E’ interessante vedere come
lavora la memoria. Quando si nomina qualcuno che vi ha fatto del male, lo
schema della memoria immediatamente va verso quello, vero?

Non dar corda e non alimentare questo schema della memoria è un modo per
portare a fine ad ogni senso di separazione e alienazione.

Il monastero da cui provengo ha circa 50 residenti, spesso poi un’altra
cinquantina di persone in ritiro e può essere addirittura un altro centinaio
in certe domeniche speciali. Perciò è una situazione piuttosto
congestionata. Certe volte ci sono gruppi di brontoloni, tipi dietro ai
paraventi che si lamentano che l’abate ha parlato troppo a lungo o che i
monaci hanno di nuovo preso tutti i dolci. In generale se ne vanno presto e
non li si rivede più. Non è così che si forma una comunità.
Quando ascoltate discorsi che tendono a dividere, forse si può tentare di
non parteciparvi.

Possiamo solo dire “Già, sembra proprio che tu abbia avuto un problema”. Va
bene anche dichiararsi di diversa opinione, ma è meglio evitare di
alimentare quella continua tendenza della mente umana a diventare negativa.

In una comunità prendersi la responsabilità per la giusta parola è di nuovo
uno di quegli specchi che gli insegnamenti del Buddha ci presentano. La
retta parola è la parola che crea concordia, armonia, che è veritiera, bella
e in accordo con il Dhamma. La parola scorretta è quella che divide, che non
è veritiera, che è brutta, crudele, violenta e che impreca, o i discorsi che
sono semplicemente stupidi.

Se veramente pratichiamo la via spirituale del Buddhismo, allora quando la
parola diventa qualcosa che crea disarmonia e divisione ce ne rendiamo
consapevoli, proprio perché prendiamo questa pratica seriamente. Ci diciamo:
“Che bisogno ho di parlare così? Perché dovrei creare disarmonia?”

Inerente a questo è il gioioso risveglio alla pacifica relazione e alla
intimità. L’intimità non riguarda solo il rapporto tra due persone. Vuol
dire anche non alienarsi e provare affetto per tutti gli esseri senzienti –
ed anzi provarne affetto. Non è facile ma vale la pena praticare questa
nobile aspirazione perché porta molta gioia. Non la gioia del consumismo o
della scappatoia facile. E’ un profondo senso di nobiltà nel cuore umano.

Ho vissuto in comunità per 25 anni e trovo che la comunità richiede molto
lavoro. Ajahn Sumedho usa l’immagine di cinquanta pietre grezze
semi-preziose messe in macchine levigatrici. Ne escono tutte belle e
brillanti e vengono vendute nelle gioiellerie. Il processo consiste nella
smerigliatura. E’ come stare con qualcuno che trovate molesto e con cui è
giusto non essere d’accordo, ma prendendone la responsabilità. O stare con
qualcuno che vi fa paura e lavorare su questa sensazione. E’ un tipo di
smerigliatura che richiede tempo, stabilità e impegno.

Dobbiamo chiederci come mai c’è tanta depressione e tanti suicidi nella
nostra società. A me sembra che il problema stia nel fatto che non abbiamo
comunità e ci relazioniamo in modo alienante. Ci relazioniamo in modo
competitivo.

Tagliamo gli alberi per poter usare la terra. Ci alieniamo dai nostri stessi
corpi e ci portiamo in giro queste cose gonfie, super-nutrite. Cos’è un
corpo? E’ uno degli ambienti in cui viviamo. Che cosa sente? Che tipo di
cibo richiede? Il modo più completo per vivere la propria vita è avere
affetto per la propria comunità formata da esseri con sentimenti, per ciò
che si introduce nel corpo e nella mente.

Ma quale è un rapporto amorevole con le emozioni? Anche nella pratica
spirituale si può avere un crudele atteggiamento di odio per se stessi e per
le difficoltà che si stanno affrontando. Ci può essere richiesto di essere
amorevoli e perdonare. La parte spirituale della comunità comprende anche
una partecipazione affettuosa con il nostro essere interiore e la
comprensione delle nostre stesse emozioni. All’interno di questa
amorevolezza o consapevolezza interiore si può vedere quante limitazioni ci
sono. Si vede che c’è risentimento, rabbia, paura.

Questo processo è il modo più completo e integrale di vivere la propria
vita. Una vita vissuta in attesa di un week-end al golf non ha alcun senso
per me. Mi sembra che impegnare duramente il proprio corpo in qualcosa per
poi avere poche ore di piacere alla settimana sia un modo di dissociarsi e
alienarsi dalla vita. Ha senso invece una vita immediata in cui si vive
momento dopo momento in questo modo affettuoso e gentile; inoltre dà buoni
risultati.

Questo può portare una nuova qualità alla vita, perché il processo
dell’esistenza
è importante quanto ogni altro traguardo. Il fare è importante perché
richiede attenzione amorevole per tutte le piccole cose.

Se i mezzi sono giusti, il traguardo sarà quello giusto. Se questo momento
della mia vita non è unito all’affetto, come allora posso averne dopo? Se la
contemplazione spirituale che faccio è legata all’odio, al disprezzo e alla
critica che provo per me stesso, come potrà esserci amore alla fine della
strada? Non potrà esserci. Non può funzionare. La legge del karma non
funziona in questo modo. Perciò questa vita buddhista è una vita di
responsabilità, di maturità, di affetto. Una vita che si prende cura di sé e
della propria comunità.

Vi auguro ogni bene nel vostro viaggio spirituale e spero che questo luogo
vi aiuti a sviluppare la comunità nella vostra vita spirituale.

° ° ° ° ° °

Ajahn Viradhammo, nato in Germania da famiglia lettone ma canadese di
adozione, è monaco della tradizione della foresta dal 1974. E’ stato uno dei
primi discepoli occidentali di Ajahn Chah e ha fondato il monastero
Bodhinyanarama in Nuova Zelanda. Dal 2006 si occupa nel fondare un nuovo
monastero in Canada, vicino ad Ottawa (www.tisarana.ca).

Condividi:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *