Una questione di equilibrio

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Una questione di equilibrio

(Estratto da un discorso della Sister Ajahn Candasiri)

© Ass. Santacittarama, 2006. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Traduzione di Gabriella De Franchis.

Dal libro “Freeing the Heart” in corso di traduzione, una raccolta di
discorsi di monache. L’orginale inglese può essere scaricato dal sito
www.amaravati.org.

° ° ° ° °

Nei nostri monasteri ogni inverno dedichiamo due o tre mesi ad un periodo di
ritiro tranquillo: un periodo per concentrarci di più sul lavoro interiore.

Durante questo periodo veniamo incoraggiati a coltivare nel nostro cuore uno
spazio più stabile e pacifico. Soltanto ponendo l’attenzione a ciò
diventiamo capaci di osservare tutte le nostre abitudini più o meno
appropriate, e di addestrare la nostra mente rendendola nostra buona amica e
buon servitore, piuttosto che un nemico che ci può condurre a varie forme di
infelicità.

Quando si esce da un tale periodo di ritiro, per molte persone sorge un
problema da affrontare: vivere in una normale abitazione o in un ambiente
monastico?.

Il problema si risolve trovando un giusto equilibrio tra l’indispensabile
“lavoro interiore” – che richiede periodi di ritiro e isolamento – e la
nostra relazione con “il mondo”, incluse le responsabilità che abbiamo
all’interno
delle nostre rispettive comunità (siano esse la famiglia o il Sangha
monastico) e anche verso tutto il resto.

Se la nostra attenzione e le nostre energie vengono rivolte solo verso
l’esterno,
verso i nostri compagni spirituali o verso la società, prima o poi ci
renderemo conto che anche se impieghiamo ogni grammo di energia, fino
all’ultimo
respiro, ci sarà sempre ancora tanto da fare, infatti i bisogni, le
sofferenze del mondo “là fuori”, sono infiniti. Non potremmo mai affrontarli
tutti.

Se ci proviamo, come fanno molti di noi prima di avere finalmente capito, il
risultato saranno l’esaurimento, la disperazione e la delusione. Alla fine
vediamo che in realtà si tratta di una questione di equilibrio; abbiamo
bisogno di trovare un modo per bilanciare il nostro lavoro “interiore” con
il lavoro rivolto “all’esterno”.

Iniziamo ad apprezzare un paradosso fondamentale: per essere veramente
generosi, veramente di aiuto agli altri, in realtà abbiamo bisogno di essere
totalmente “egocentrici”.

Dobbiamo essere capaci di rimanere in contatto con il nostro cuore, di
ascoltare attentamente quello che ci dice, anche quando siamo impegnati in
attività esterne o nella interazione. Dobbiamo stare attenti ai nostri
bisogni ed essere sicuri di prendercene cura, anche se ciò significa
dispiacere le persone, deluderle, non essere all’altezza delle aspettative
che possono avere nei nostri confronti (o che noi abbiamo verso noi stessi).
Questo non è per niente facile dato il condizionamento che molti di noi
hanno: “Non essere egoista.”

C’è una metafora su due acrobati, dataci da Buddha: il maestro disse
all’alunno,

“Tu stai attento per me e io starò attento per te. Così mostreremo tutta la
nostra abilità con successo e avremo la nostra ricompensa.”

Ma l’alunno lo contraddisse,

“Ma, maestro, questo non funzionerà. Tu dovresti badare a te stesso, ed io
baderò a me stesso, in questo modo avremo successo nella nostra prova.”

Il Buddha poi continua e dà una spiegazione; dice cioè che era l’alunno ad
avere ragione: è solo badando a noi stessi, attraverso la pratica della
consapevolezza, che ci prendiamo cura degli altri. Ma anche l’ essere
attenti nei confronti degli altri è un modo per avere cura dei nostri cuori.

Inoltre ha specificato che impegnandoci veramente nel coltivare i Fondamenti
della Consapevolezza, ci prendiamo cura di noi stessi in un modo tale che è
di beneficio agli altri e che attraverso la pazienza, la gentilezza e la
considerazione, non solo ci prendiamo cura degli altri, ma proteggiamo anche
i nostri cuori.

Quando era in vita Buddha fondò la quadruplice assemblea dando ad essa una
struttura sociale che avrebbe facilitato lo sviluppo e il mantenimento delle
qualità della presenza mentale e del rispetto verso gli altri.

Tuttavia, sia che noi continuiamo a vivere come monaci o monache, o viviamo
come laici, una cosa è chiara: è probabile che ci voglia del tempo. Questa
pratica deve essere sviluppata e ci impegna per tutta la vita.

Di solito non è che le cose cambiano e tornano a posto subito dopo il primo
barlume di consapevolezza; dobbiamo lavorare alla stesura delle fondamenta,
usando gli strumenti e la guida che ci ha mostrato il Buddha. Anche se sono
stati mostrati 2.500 anni fa, funzionano ancora bene, visto che sono stati
usati da generazioni di uomini e donne per regolare la propria vita, per
impedire l’inaridimento del potenziale che è in ognuno di noi e che aspetta
placidamente, nei nostri cuori, che, come priorità nella nostra vita,
scegliamo di coltivarlo.

° ° ° ° °

Ajahn Candasiri è nata in Scozia nel 1947 ed ha avuto una educazione
cristiana. Dopo l’università, ha studiato e lavorato come ergoterapista
principalmente nel campo delle malattie mentali. Nel 1977, un interesse per
la meditazione la portò ad incontrare Ajahn Sumedho, subito dopo il suo
arrivo dalla Thailandia. Ispirata dai suoi insegnamenti e dal suo esempio,
iniziò l’addestramento monastico a Chithurst, come una delle prime quattro
anagarika. All’interno della comunità monastica si è impegnata nello
sviluppo dell’addestramento vinaya delle monache. Ha condotto molti ritiri
di meditazione per laici e trova particolarmente piacevole insegnare ai
giovani e partecipare al dialogo tra Cristiani e Buddhisti.

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