Una storia del rumore
di Tiziano Bonini
“Ovunque siamo, quello che ascoltiamo è soprattutto rumore. Quando lo ignoriamo, ci disturba. Quando ci mettiamo ad ascoltarlo, ci affascina”. (John Cage, 1937)
Primi di marzo. Marrakech. Sto entrando per la prima volta in una delle piazze più grandi del mondo, Jamaa el Fna. Arrivandoci da uno degli stretti vicoli della Medina, affollati dal rumore di motorini e radioline dei negozi, vengo improvvisamente invaso da un paesaggio sonoro inedito e abbacinante, composto di zoccoli di cavalli, flauti di addomesticatori di serpenti, canti di narratori locali, urla, muezzin, venditori. Ancora oggi, a distanza di settimane, è il suono di quella piazza quello che mi rimane più in testa. Così come di Istanbul ricordo subito i canti che si innalzavano assieme dalle tante moschee della città.
Tutti noi, se ci pensate bene, conserviamo un ricordo sonoro dei luoghi in cui siamo stati o in cui siamo cresciuti, quello che il teorico dei media Rudolf Arnheim chiamava l’ “immagine acustica” di un luogo e che il musicologo canadese Raymond Murray Schafer chiama il “paesaggio sonoro”.
Siamo costantemente immersi nel suono, dal rumore del traffico a quello della fabbrica o dell’ufficio, o di casa. Personalmente combatto da sempre una battaglia persa contro i suoni che ci vengono imposti e che non possiamo scegliere, nello spazio pubblico: dall’audio degli schermi delle metropolitane, alla musica di sottofondo nei supermercati e nei luoghi di consumo, alle musichette di Natale trasmesse in filodiffusione nei vicoli dei centri storici italiani, al suono della radio in pizzeria. Murray Schafer parlerebbe, in questo caso, di “colonialismo sonoro”, ovvero l’occupazione dello spazio da parte di un suono imposto da qualcuno su qualcun altro. Schafer, nel suo fondamentale libro The Soundscape. Our Sonic Environment and the Tuning of the World (1974) ha dimostrato come ci sia sempre stato un legame storico fortissimo tra il suono e chi detiene il potere.
Lo ribadisce lo storico della radio inglese David Hendy nel suo bellissimo libro Noise. A Human History of sound and listening (Profile Books, 2013), che sarebbe bello poter tradurre anche in italiano. Il libro è la conseguenza di una lunga serie radiofonica di 30 puntate che l’autore ha firmato per BBC Radio 4, raccontando la storia del rumore da Stonehenge ai giorni nostri e che potete ascoltare qui.
Hendy riscrive la storia dell’evoluzione umana attraverso l’uso del suono, da quando l’uomo di Neanderthal sceglieva le zone delle caverne con più riverbero per disegnare le prime pitture rupestri, al paesaggio sonoro della Roma imperiale, dove chi viveva in centro passava notti insonni tanto quanto gli abitanti della Manhattan del 1926 all’angolo tra la 34esima strada e la Sesta Avenue, nominato all’epoca il luogo più rumoroso del mondo. Dai suoni liberatori dei carnevali medioevali, all’uso del suono come dispositivo disciplinare (nelle chiese, durante la guerra, nelle fabbriche, nei luoghi di consumo di oggi o come strumento di tortura nei campi di Guantanamo).
Particolarmente interessante il racconto dell’uso del suono da parte dei primi coloni inglesi sbarcati in Virginia nel seicento. La Sea Venture, una barca piena di viveri con a bordo 150 coloni pronti a rinforzare la moribonda colonia di Jamestown, Virginia, rischia il naufragio e si arena nel 1609 su un’isola deserta delle Bermuda. Per tenere unità la comunità di coloni sull’isola, il capitano della nave faceva risuonare all’alba e al tramonto il suono della campana della nave arenata, al quale appello tutti dovevano rispondere. Mesi dopo, la nave riuscì a raggiungere Jamestown e subito all’arrivo i coloni costruirono una nuova chiesa dove piantarono la campana della nave. Il suono della campana era un “adesivo sociale, che creava un legame invisibile tra i membri delle differenti famiglie” (p. 159). La campana, insieme al suono dei tamburi, delle trombe, dei corni e delle armi, servì ai coloni occidentali per imporre il proprio paesaggio sonoro e il proprio ordine su nuovi territori alieni e sconosciuti. I suoni dei nativi americani, i loro canti e i loro strumenti venivano visti dai nuovi coloni inglesi come un pericolo per l’ordine sociale e pertanto fecero di tutto per metterli a tacere. In Jamaica alla fine del seicento gli inglesi vietarono l’uso di tamburi e trombe perché troppo pericolosi ed eversivi per l’ordine sociale. La vita coloniale nelle colonie americane del settecento era una lotta per la supremazia in cui il suono era contemporaneamente un’arma e qualcosa di prezioso da proteggere. Così come oggi, nelle favelas di Rio de Janeiro, il processo di “pacificazione” messo in atto dalla polizia brasiliana in vista dei mondiali di calcio del 2015 passa anche attraverso il silenziamento del paesaggio sonoro tipico delle favelas, come ha dimostrato uno studio di una ricercatrice dell’università di Bournemouth, Andrea Medrado: “What is it like to live in a “Pacified” Favela? Community radio, pirate radio, music and listening to the voices of favela residents”.
Il libro poi prosegue la sua traiettoria storica raccontando il cambiamento del paesaggio sonoro delle città con la diffusione delle fabbriche e delle macchine utensili, il divieto di cantare nelle strade e nei luoghi di lavoro fino all’avvento dell’era elettrica, dell’età del suono amplificato, che per la prima volta nella storia dell’uomo può essere catturato e riprodotto nel tempo (il fonografo, il vinile, il nastro magnetico, l’mp3) e nello spazio a distanza (il telefono, la radio, la televisione).
Non solo gli spazi pubblici, ma anche la sfera privata, domestica, del vivere quotidiano, ha subito grandi trasformazioni, con il proliferare dei media elettronici (iniziò tutto col telefono) all’interno delle case borghesi a cavallo fra otto e novecento (una storia ben raccontata anche dallo storico Stefano Pivato ne Il secolo del rumore. Il paesaggio sonoro del novecento, Il Mulino, 2011).
Un libro, quello di David Hendy, con uno stile divulgativo e il piglio del narratore, fondamentale per coltivare l’attenzione per il mondo sonoro e per sviluppare una cultura del suono troppo spesso dimenticata. Sappiamo leggere e criticare un libro, sappiamo vedere un film o una fotografia, ma siamo dei semi-analfabeti del suono. Lo accettiamo come sottofondo inevitabile del nostro vivere quotidiano, senza mai metterlo in discussione. Ci lasciamo invadere dal rumore, senza pensare che sia possibile controllarlo, progettarlo, manipolarlo per addomesticarlo ai nostri gusti. Sentiamo la radio senza ascoltarla, sentiamo il mondo esterno senza mai sintonizzarci davvero col suo rumore di fondo. L’atto dell’ascolto è una pratica culturale che implica il dare attenzione a qualcosa, per distinguere il significato di un suono. “L’ascolto enfatizza l’attenzione verso qualcosa o qualcuno, il sentire invece enfatizza la percezione e la sensazione di un suono” (Kate Lacey, Listening Publics. The politics and experience of listening in the media age, Polity 2013, p. 17). L’ascolto implica un’attività dell’orecchio e della mente, entrambi concentrati nell’interpretazione di un “testo” sonoro. Sentire non significa per forza comprenderne il “testo”, ma evoca piuttosto un “ascolto” distratto, passivo, di sottofondo, effimero, passeggero. L’ascolto è un’attività della mente. Si ascolta con la mente attiva, ma si sente con il corpo. L’ascolto prevede una dimensione “affettiva” e riflessiva. Il libro di David Hendy è soltanto il più recente e uno dei più brillanti di una new wave di studi sul suono e sull’ascolto, come On Listening, curato dagli artisti sonori e ricercatori Angus Carlyle & Cathy Lane. A giudicare dal fiorire di così tanti nuovi saggi sull’ascolto, sembra che ascoltare stia tornando di moda.
Anche nell’arte si moltiplicano le mostre di sound art e il prossimo maggio la Goldsmith di Londra ospiterà una conferenza proprio sulla cura della sound art, Histories, Theories and Practices of Sound Art.
Per chiudere, torniamo per un attimo a Marrakech. All’ultima Biennale d’arte contemporanea di Marrakech, infatti, molte sono state le opere sonore in mostra. Il progetto che più mi ha colpito è stato Here. now. where? curato da Saout Radio. Gli artisti e curatori Anna Raimondo e Younes Baba Ali hanno coinvolto dieci tassisti di Marrakech e selezionato numerosi sound artist internazionali, trasformando i loro taxi in luoghi di ascolto in movimento. Prendevi un taxi – lo riconoscevi da un bollino verde sul lunotto posteriore – e partivi alla scoperta di paesaggi sonori immaginari, reali, lontani. Dal finestrino, come racconta Ilaria Gadenz di Radio Papesse, “Scorrono veloci i profili di Marrakech, i motorini MBK, i marciapiedi brulicanti di persone, mentre in auto parte la prima traccia e dalle casse mezzo sfondate esce prima Five Beijing Sounds di Peter Cusack, poi Monday Morning in Lagos di Emeka Ogboh. Intanto i tassisti dicono di perdersi in questi suoni sconosciuti. Uno assicura che: “sono due giorni che sogno a occhi aperti”.
Fermatevi un attimo, cosa state ascoltando in questo momento?
https://it.wikipedia.org/wiki/Paesaggio_sonoro
http://en.wikipedia.org/wiki/R._Murray_Schafer
da doppiozero.com
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