Vacuità e pura consapevolezza

pubblicato in: AltroBlog 0

Vacuità e pura consapevolezza

Tratto dalla Rivista “Dharmna” – n° 5

– Vacuità e pura consapevolezza –

(di Ajahn Amaro)

Comprender la vacuità è realizzarla. Questa è l’esperienza proposta in
questo articolo che viene dalla tradizione theravada tratto dal n. 30 del
Forest Sangha Newsletter, pubblicato nell’ottobre 1984.

1. Tutti siamo messi di fronte alla realtà inevitabile dell’insoddisfazione
e del disagio fisico, compreso il Buddha. Poiché siamo nati, il dolore e la
malattia sono pericoli sempre in agguato. In conseguenza della nascita
fisica c’è il decadimento fisico: non può esserci l’una senza l’altro.
Quindi l’unico, vero nostro rifugio è il Senza morte, ciò che non è soggetto
a malattia, corruzione, tempo o limitazioni, ciò che è senza sostegno.
Ritornare alla nostra origine, il Senza morte, è l’unico modo per sanare la
malattia, l’unico modo per superarla.

Ritornare alla Sorgente, realizzare il Senza morte, significa arrivare a
riconoscere la fonte, l’origine della vita, ed è questo che ha esercitato la
sua forza d’attrazione su di noi per tutta la nostra esistenza: l’attrazione
della Verità, del Reale, di ciò che è totalmente soddisfacente, totalmente
sicuro.

Da bambini agivamo a livello istintivo, per cui l’attrazione spirituale si
focalizzava, o sublimava, nel cibo, nell’affetto e nei giocattoli. Siamo
sempre stati spinti dalla motivazione spirituale, che però ha imboccato le
vie laterali della ricerca della sicurezza materiale o della felicità basata
sui rapporti. Purtroppo tali ricerche non sono risolutive perché, essendo
impermanenti, non possono darci sicurezza vera. Inoltre, il cuore sa di non
aver percorso tutta la strada, come se stessimo facendo un lungo viaggio e,
durante una deviazione, fossimo stati catturati da qualcosa di interessante
incontrato per via. Ma solo arrivati a destinazione possiamo esclamare:

“Adesso siamo a casa, adesso siamo al sicuro”. Invece, finché ci attardiamo
nelle deviazioni, il cuore continua a dire: “C’è ancora strada da fare”
oppure: “Questo è molto bello, ma manca qualcosa. Non è qualcosa di
definitivamente giusto, definitivamente vero, definitivamente definitivo”.

2. L’attrazione per la verità è il fondamento. L’attrazione per la realtà,
per il tessuto che forma ogni essere è la legge che regola l’universo. Se ci
armonizziamo con questa attrazione comprendendone il carattere spirituale,
se abbiamo fatto nostra l’idea che la vita è in tutto e per tutto un evento
spirituale, il compito diventa molto più facile e il raggiungimento della
Meta inevitabile. La tendenza a perderci nelle vie traverse si allenta e,
conoscendone la vera natura, sentiamo il richiamo della Meta che ci
incoraggia e ci spinge a proseguire.

Davanti a espressioni come il Senza morte, l’Assoluto, la Meta o l’Altra
Sponda, la mente cerca di afferrarle senza riuscirvi. Lo stesso per il
Nibbana descritto, in termini privi di drammaticità o emotività, come
‘raffreddarsi’, ‘raffreddamento’. Lo stesso per la comprensione della Verità
assoluta come ‘vacuità’, termine che vuole indicare la realizzazione di una
mente pura e non concettuale.

Questa terminologia non significa che dietro ci sia un ‘niente’, ma che, se
la mente concettuale vuole afferrare la verità ultima, che non può assumere
forme o modelli, scopre che non si tratta di una ‘cosa’. È come avere
davanti un libro scritto in cinese senza conoscere il cinese. Probabilmente
il libro è ricco di splendidi insegnamenti e eccelse verità, ma non
potendolo leggere resta privo di significato. Lo stesso avviene per la mente
concettuale che tenti di afferrare la Verità ultima, la natura divina. La
mente concettuale si interroga in termini di: “Che cos’è?”, “Come
descriverlo?”, “Dove si trova?”, “Io sono quello?”, “Quello non sono io?”,
brancolando in cerca di appigli ma mancando ogni volta la presa, come il
tentativo di leggere il libro scritto in cinese sapendo solo l’inglese.

L’esperienza della Verità ultima si può descrivere come ‘vuoto’ perché, per
la mente concettuale, è priva di forma. Ma per la mente non concettuale, per
la mente di saggezza, la realizzazione della Verità equivale alla verità che
conosce se stessa. Se non c’è identificazione, se non c’è nessun senso
dell’io, la mente è calma e pura, semplicemente consapevole della propria
natura. È il Dhamma consapevole della propria natura. Nasce la comprensione
che tutto è Dhamma, ma, trattandosi di una comprensione non verbale e non
concettuale, la mente concettuale lo chiama ‘vuoto’. A se stessa, invece, la
vera natura è evidente e chiara. Corrisponde alla sorgente della vita, al
fondamento della realtà.

3. Il nostro mondo, fatto di persone e di cose, di tante azioni diverse, è
chiamato il mondo della manifestazione , il mondo sensoriale o condizionato.
Il Buddha insegnò in termini di relazione tra incondizionato e condizionato,
tra assoluto e relativo, tra verità convenzionale (samutti sacca) e verità
assoluta (paramattha sacca). Gran parte della pratica buddhista riguarda la
comprensione del rapporto tra questi due aspetti di ciò che è.

Con la comprensione dell’incondizionato vediamo chiaramente che tutto ciò
che ne sgorga in termini di condizionato è bello e armonioso, e tutto ciò
che è bello e armonioso aiuta a ricondurre la mente all’Increato. Atti
religiosi, insegnamenti, opere d’arte sono forme pure e armoniose che
riportano la mente al silenzio, alla pace, alla purezza che sta dietro le
cose. Anche nei nostri canti, benché i suoni siano piacevoli, l’importanza è
data dal fatto che conducono la mente alla percezione del silenzio della
Verità ultima che si stende oltre il suono e lo permea. Ecco il motivo per
cui determinate composizioni musicali o opere d’arte fermano la mente,
colmano il cuore di calore e di luce, di un senso di beatitudine e bellezza.
È un’esperienza religiosa. L’esperienza che l’arte vera comunica è infatti
essenzialmente religiosa, e questo è il suo scopo.

Lo stesso accade nei rapporti. Se cerchiamo soddisfazione in un rapporto
basato soltanto sullo strato esterno della personalità, non faremo che dare
sfogo al nostro egoismo proiettando sull’altro il desiderio che sia in un
certo modo o che si comporti in un certo modo per renderci felici. Ciò non
avviene soltanto nell’ambito dei rapporti di coppia ma anche nella vita
monastica, soprattutto all’interno del rapporto maestro-discepolo. Se
abbiamo idee molte precise su come debba essere un maestro (come dev’essere,
che cosa deve dire, che cosa deve e non deve fare), si incorre in una netta
divisione tra ‘lui’ e ‘me’. Il risultato è sentirci soddisfatti e
compiaciuti di essere in rapporto con una tale persona finché ci dice ciò
che ci piace sentire e ci loda, provando invece irritazione e scontento, un
senso di rabbia e di ferita, se non si comporta come vorremmo o non
corrisponde all’immagine che ce ne siamo fatti. Una forte devozione e una
posizione fortemente emotiva conducono con facilità a sentimenti violenti e
distruttivi altrettanto forti.

Nella mitologia greca, Afrodite e Ares sono una coppia, anche se la prima è
la dea dell’amore e il secondo è il dio della guerra. È una metafora
eloquente del funzionamento umano in cui, in mancanza di discernimento, la
passione si trasforma facilmente da attrazione in avversione. Sembra che il
novanta per cento degli omicidi abbia un’impronta sessuale: statistica
decisamente sorprendente. Ma possiamo renderci conto di quanto, se nutriamo
forti aspettative o forte emozionalità a livello di personalità individuale,
siamo condannati alla delusione. Per questo la soddisfazione vera viene
soltanto dalla visione di ciò che sta oltre la personalità, oltre il senso
dell’io e del mio.

4. Potremmo dire che la devozione per un insegnante o un guru, e l’amore tra
due persone, siano esperienze religiose. Le pratiche devozionali suscitano
un sentimento di amore, e in questo amore perdiamo la nostra identità,
perdiamo il senso di un io. Anche in un rapporto affettivo dimentichiamo noi
stessi e siamo completamente assorbiti nell’altro. L”altro’ diventa
preponderante, e il senso dell’ ‘io’ scompare. Lo stato di grazia
dell’innamoramento riveste un carattere religioso: non c’è più io, c’è in
apparenza perfetta felicità.

Ma è una felicità condizionata che dipende dalla presenza dell’altro, dalla
costanza del suo interesse per noi, e così via. Nel momento del contatto
d’amore, quando il senso dell’io svanisce, c’è beatitudine. In ‘Via col
vento’, il momento del bacio tra Rossella O’Hara e Rhet Butler è molto
interessante. Viene descritto più o meno con queste parole:

“Sapeva solo che era tutto svanito. Il mondo non c’era più, non c’era più né
lui né lei, restava soltanto un’immensa felicità e un rombo nelle orecchie.”

Descrizione abbastanza comune delle esperienze mistiche! Di qui si
comprende come, a livello di rapporto tra persone, la totale scomparsa del
senso dell’io conduce, almeno per quei pochi attimi, all’unità e
all’appagamento, alla perfezione.

Il cammino religioso è vivere la possibilità di realizzare la perfetta
felicità, la pienezza dell’essere, facendone una realtà sempre presente e
incondizionata, indipendente cioè dalla presenza del maestro o della persona
amata, indipendente da una parola gentile, dalla salute o da qualunque altra
cosa. È uno stato trovato nella consapevolezza, nella saggezza e nella
purità di cuore. Non è un’esperienza estatica, dipendente da droghe o
dall’innamoramento, da un brano musicale o un’opera d’arte. Quando questa
esperienza viene trovata nelle qualità spirituali ed è indipendente dai
sensi, sperimentiamo l’incrollabilità. Altrimenti, anche se esiste un totale
ma momentaneo trasporto, l’esperienza porta inevitabilmente con sé la
propria ombra:

“Non può durare. Adesso è splendido ma il concerto finirà, dovrò tornare a
casa, dovrò cenare, dovrò lavorare…dovrò fare qualcosa”.

Per questo è un sentiero difficile. Fondare la felicità incrollabile
significa essere pronti a lasciare da parte tutte le felicità ‘secondarie’.
Significa uscire dalla vecchia pelle come il serpente che abbandona la
vecchia livrea. Significa essere continuamente pronti a lasciarci alle
spalle il vecchio, non restare attaccati alla vecchia pelle, alla vecchia
identità, ai nostri vecchi successi e ai nostri vecchi attaccamenti.

5. Quando un serpente si spoglia della vecchia pelle attraversa un momento
di fragilità, di vulnerabilità. La pelle nuova è ancora tenera, delicata. Ha
bisogno di tempo per irrobustirsi. La stessa cosa accade nello sviluppo
spirituale: quando ci lasciamo qualcosa alle spalle, quando lasciamo andare
qualcosa, c’è dapprima un senso di sollievo (“Finalmente me ne sono
liberato!”), ma quello stesso abbandono del senso dell’io ci lascia con un
senso di vulnerabilità, di completa apertura alla vita così com’è.

Diventiamo aperti e sensibili all’infinita natura della vita, all’universo,
a tutto ciò che accade. Allora può nascere paura, esitazione. “Come vorrei
ritornare nella mia vecchia pelle. Incominciava a starmi stretta, cadeva a
pezzi, ma mi dava un po’ di riparo e protezione”. Ma il cuore ci dice che è
impossibile. Non possiamo più entrare nei vestiti che ci andavano bene a
cinque anni. Forse qualcosa potrebbe andarci ancora bene (una sciarpa, una
catenina…), ma vediamo l’impossibilità di continuare a trascinarci dietro
la vecchia identità, i nostri amori e attaccamenti, i vecchi problemi, le
vecchie sfide e i vecchi dolori.

Lasciare le cose che amiamo è difficile, ma scopriamo che è ancora più
difficile lasciare le cose che ci fanno soffrire. Un saggio maestro diceva:
“Agli uomini potete togliere tutto ma non il loro dolore. Ci resteranno
attaccati fino alla morte”.

Alla fine comprendiamo che dobbiamo lasciar andare tutto. Non importa quanto
abbiamo ragione a desiderare qualcosa, a rimpiangere qualcosa, a soffrire
per qualcosa…dobbiamo lasciarci tutto alle spalle, non possiamo indossarlo
di nuovo. Crescendo, impariamo che la cosa migliore, l’unico modo vero, è
vivere la vulnerabilità, l’apertura a ciò che non conosciamo. L’ignoto fa
paura. Quando non sappiamo, quando la mente concettuale non riesce ad
afferrare un’esperienza, quando non riesce a descrivere, denominare o
classificare ciò che avviene, c’è paura, perché c’è l’io.

L’ignoto spaventa finché l’io perdura. Ma se ci apriamo all’ignoto
abbandonando l’io, la paura si trasforma nel mistero, colmo di meraviglia.
La mente vive un’esperienza di meraviglia, non di terrore. Questa è la
trasformazione che libera, e questo è il nostro sentiero.

(Trad. dall’inglese di Gianpaolo Fiorentini)

Ajahn Amaro (Jeremy Horner), inglese, monaco theravada della tradizione
della foresta, è stato uno dei primi discepoli occidentali di Ajahn Chah in
Thailandia, alla fine degli anni ’70. In seguito soggiornò al monastero
Amaravati, in Inghilterra, con Ajahn Sumedho, per poi divenire abate del
monastero Aruna Ratanagini ad Harnham, in Scozia. Da qualche anno è abate
del monastero Abhayagiri, in California.

Condividi:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *