Veda – Upanishad – Tantra – 2
di Sri Aurobindo e la Madre
– Seconda parte –
LE UPANISHAD
Le Upanishad sono l’opera suprema del pensiero indiano, e che sia effettivamente così, che
l’altissima espressione della personalità del proprio genio, la loro sublime capacità poetica, la
loro enorme capacità creativa in pensiero e in parola, non siano un capolavoro letterario, o poetico
della mente ordinaria, ma un ampio flusso di rivelazione spirituale per questo carattere profondo e
diretto, è un fatto significativo, prova di una mentalità unica e di una non comune inclinazione
dello spirito.
Le Upanishad sono nello stesso tempo profonda scrittura religiosa, in quanto testimonianza delle
più assolute esperienze spirituali, documenti di una filosofia rivelatrice e intuitiva di luce,
potere e ampiezza inesauribili e, sia in prosa che in metrica, poemi spirituali di una assoluta,
infallibile ispirazione costante nel linguaggio, straordinaria per ritmo ed espressione.
E’ la manifestazione di una mente nella quale filosofia e religione e poesia sono diventate una
cosa sola, perché questa religione non termina in un culto, né è limitata ad una aspirazione di tipo
etico-religioso, ma si innalza verso una scoperta infinita di Dio, del Sé, della nostra più alta e
totale realtà spirituale e di esseri viventi e descrive un’estasi di luminosa conoscenza e un’estasi
di partecipe e compiuta esperienza; questa filosofia non è un’astratta speculazione intellettuale
intorno alla Verità, o una delle strutture dell’intelligenza logica; ma, una verità vista,
esperita, vissuta, posseduta dalla mente e dall’anima più profonda nella gioia di esprimere una
sicura scoperta e possesso, e questa poesia è opera di una concezione estetica innalzata oltre il
suo ambito ordinario per esprimere la meraviglia e la bellezza della più rara autocoscienza
spirituale e della più profonda, ispirata Verità del Sé e di Dio e dell’universo.
Qui lo spirito intuitivo e l’intima esperienza psicologica dei veggenti vedici perviene a un
culmine supremo in cui lo Spirito, come è detto in un passaggio della Katha Upanishad, svela la sua
più vera essenza, rivela la parola esatta della sua autoespressione e apre alla mente la vibrazione
di ritmi che, ripetuti all’ascolto spirituale sembrano sostanziare l’anima e porla, ricolma e
compiuta, sulle sommità dell’autoconoscenza.
Le Upanishad sono stata la sorgente riconosciuta di varie e profonde filosofie e religioni che da
esse sono poi scorse in India come i grandi fiumi dalla culla himalayana, rendendo fertili la mente
e la vita degli uomini e hanno mantenuto viva la sua anima lungo il grande procedere dei secoli
ritornando costantemente ad esse per la rivelazione, mai mancando di dare nuova illuminazione,
fontana di inesauribili acque di vita.
Il Buddismo con tutti i suoi sviluppi fu solo una riaffermazione, sebbene da un nuovo punto di
vista e con nuovi termini di definizione e di ragionamento intellettuale, di un aspetto di questa
esperienza e la portò così modificata nella forma, ma appena nella sostanza, attraverso tutta l’Asia
e a occidente verso l’Europa.
Le idee contenute nelle Upanishad possono essere ritrovate in molto del pensiero di Pitagora e
Platone e costituiscono la parte più profonda del Neo Platonismo e dello Gnosticismo con tutte le
loro importanti conseguenze sul pensiero filosofico occidentale, e il Sufismo le ripete soltanto in
un altro linguaggio religioso.
La parte più consistente della metafisica tedesca è in sostanza poco più che uno sviluppo
intellettuale di grandi realtà meglio spiritualmente comprese da questo antico sapere, e il pensiero
moderno le sta rapidamente assorbendo con una ricettività sempre più essenziale, viva ed intensa che
promette una rivoluzione tanto nel pensiero filosofico quanto in quello religioso; ora esse filtrano
grazie a varie influenze indirette, ora si esprimono in modi aperti e diretti.
Quasi non esiste una grande idea filosofica che non possa trovare forza, o una nuova origine, o
indicazioni in queste antiche scritture, le speculazioni, secondo un certo punto di vista, di
pensatori che non avevano miglior passato, o miglior base culturale al loro pensiero di una rozza,
primitiva, naturalistica ed animistica ignoranza.
E persino le più ampie generalizzazioni della scienza si ritrovano costantemente applicabili alla
verità delle formule della natura fisica già scoperta dai saggi indiani nel loro originale, nel loro
più vasto significato, nella più profonda verità dello spirito.
E tuttavia queste opere non sono speculazioni filosofiche di genere intellettuale, analisi di tipo
metafisico che cercano di definire nozioni, di selezionare idee e di distinguere quante tra di loro
sono vere, di logificare la verità o aiutare altrimenti la mente nelle sue inclinazioni
intellettuali per mezzo del ragionamento dialettico e nel suo concetto di proporre una soluzione
definitiva dell’esistenza nella luce di questa o di quella idea della ragione e di osservare tutte
le cose da quel solo punto di vista, in quel fuoco e in quella determinata prospettiva.
Le Upanishad non avrebbero potuto avere una vitalità così perenne, esercitare una influenza così
sicura, produrre tali risultati, o vedere oggi le loro asserzioni autonomamente confermate in altri
ambiti di ricerca e attraverso metodi completamente diversi, se fossero state opere di quel genere.
E’ perché questi veggenti videro la Verità piuttosto che semplicemente pensarla, la rivestirono
anzi di una forte sostanza di intuizione e di immagine rivelatrice, ma una sostanza di trasparenza
ideale attraverso la quale noi guardiamo verso l’illimitato, è perché essi compresero in profondità
le cose nella luce del Sé e le videro con la visione dell’infinito, che le loro parole rimangono
sempre vive e immortali, di un significato inesauribile, di una immancabile autenticità, un fine
convincente che è nello stesso tempo un infinito inizio della verità, alle quali tutte le nostre
ricerche quando terminano di nuovo approdano e alle quali l’umanità costantemente ritorna nelle sue
menti e nelle sue epoche di più profonda visione.
Le Upanishad sono il Vedanta, un libro di conoscenza ad un più alto grado persino dei Veda,
conoscenza nel più profondo senso indiano del termine, Jnana.
Non un semplice pensare e considerare attraverso l’intelligenza, non il ricercare e il cogliere una
forma mentale della verità con la mente razionale, ma un vederla nell’anima ed un vivere totale in
essa grazie al potere dell’essere interiore, un possesso spirituale attraverso una sorta di
identificazione con l’oggetto della conoscenza, è Jnana.
E poiché è solo attraverso una conoscenza integrale del Sé che questo genere di conoscenza diretta
può essere resa completa, fu questo che i saggi vedantini cercarono di conoscere, di penetrare e di
vivere nell’identità.
E attraverso questo sforzo essi giunsero facilmente a comprendere che il Sé in noi è una cosa sola
con il Sé universale di tutte le cose e ancora che questo Sé non è che Dio e il Brahman, un Essere,
o una Esistenza trascendenti, ed essi videro, sentirono, vissero nella più intima verità di tutte le
cose dell’universo e nella più intima verità dell’esistenza interiore ed esteriore dell’uomo grazie
alla luce di questa sola e unificante visione.
Le Upanishad sono inni della conoscenza del Sé dell’universo e di Dio.
Le grandi formule di verità filosofiche di cui esse abbondano non sono astratte generalizzazioni
intellettuali, realtà che possono rischiare ed illuminare la mente, ma che non vivono e non spingono
l’anima ad ascendere, ma sono ardori e luci di una illuminazione intuitiva e rivelatrice,
raggiungimento e comprensione della sola Esistenza, della Divinità trascendente, del divino e
universale Sé, scoperta della sua relazione con le cose e le creature di questa grande
manifestazione cosmica.
Canti di un ispirato sapere, essi emanano come tutti gli inni un tono di aspirazione ed estasi
religiose, non del genere scarsamente profondo proprio a un sentimento religioso minore, ma
innalzato, al di là del culto e di forme particolari di devozione, verso l’universale Ananda del
Divino che ci raggiunge attraverso l’avvicinamento e l’identità con l’autocosciente Spirito
universale.
E sebbene principalmente concernenti la visione interiore e non direttamente l’agire umano
esteriore, tutte le più importanti etiche del Buddismo e dell’Induismo posteriore sono tuttavia
ancora della stessa vita e del significato delle verità alle quali essi danno forma espressiva e
forza e tuttavia esiste qualcosa più grande di qualunque precetto etico e norma mentale di virtù,
l’ideale supremo di una azione spirituale fondata sull’identità con Dio e con tutti gli esseri
viventi.
Perciò anche quando sono morte le forme del culto vedico, le Upanishad sono rimaste viventi e
creative ed hanno potuto generare le grandi religioni devozionali e sostenere la duratura concezione
indiana del Dharma.
Le Upanishad sono la creazione di una mente rivelatrice e intuitiva e nella sua illimitata
esperienza; la loro sostanza, la struttura, l’espressione, il linguaggio figurato e le dinamiche
sono determinati e contrassegnati da questo carattere originale.
Queste verità supreme e onnipervadenti, queste visioni di unità, del Sé e di un essere divino
universale sono proiettate in frasi concise e monumentali che le portano immediatamente di fronte
alla visione dell’anima e le rendono presenti e imperative per la sua aspirazione e la sua
esperienza e sono espresse in brani poetici pieni di potere rivelatore e di una concezione
suggestiva che scopre l’intero infinito attraverso un’immagine finita.
L’uno è là rivelato ma ha anche dischiuso i suoi innumerevoli aspetti, e ciascuno guadagna pieno
significato attraverso l’ampiezza dell’espressione e trova, come in una spontanea autoscoperta, il
suo posto e la sua coordinazione attraverso l’illuminante esattezza di ogni parola e dell’intera
frase.
Le più vaste verità metafisiche e le più sottili distinzioni dell’esperienza psicologica sono
raccolte all’interno del movimento ispirato e rese immediatamente chiare per la mente che osserva e
colmate di infinite suggestioni per lo spirito che conosce.
Esistono frasi particolari, singoli distici, brevi passaggi che contengono in se stessi l’essenza
di una vasta filosofia e tuttavia ciascuno di essi viene pronunciato come un lato, un aspetto, una
parte dell’infinita autoconoscenza.
Tutto è di una concisione raccolta e ricca di idee e tuttavia perfettamente lucida e luminosa,
tutto di una infinita compiutezza.
Un pensiero di questo genere non può seguire il lento, prudente e prolisso sviluppo
dell’intelligenza logica.
Il brano, la frase, il distico, il verso e persino il mezzo verso segue quello che precede con un
intervallo determinato pieno di un significato inespresso, un silenzio che echeggia tra loro, un
pensiero che viene trasmesso in una suggestione totale ed è implicito alla cadenza stessa ma che la
mente è lasciata libera di elaborare a proprio vantaggio, e questi intervalli di silenzio
significante sono ampi, la cadenza di questo pensiero come i passi di un Titano che cammina tra
rocce distanti su acque infinite.
Si trova una perfetta totalità, una estesa correlazione di parti tra loro armoniche nella struttura
di ogni Upanishad; ma il tutto è trattato al modo di una mente che vede in uno sguardo masse di
verità e si arresta per estrarre solo la parola necessaria da un silenzio compiuto.
Il ritmo nel verso o la cadenza della prosa scolpiscono l’idea e l’espressione.
Le forme metriche delle Upanishad sono costituite da quattro semiversi ciascuno chiaramente
definito, versi che sono generalmente completi e dotati di senso, semiversi che presentano due
pensieri o parti distinte di un pensiero che sono unite e si completano reciprocamente, e la cadenza
sonora segue un principio corrispondente, ciascun passo conciso e marcato della chiarezza del
proprio intervallo, colmo di ritmi echeggianti che permangono a lungo a vibrare nell’ascolto
interiore; ciascun passo è come un’onda dell’infinito che porta in se stessa interi la voce e il
suono dell’oceano.
E’ un genere di poesia, parola della visione, ritmo dello spirito, che non è più stato scritto, né
prima né dopo.
Il linguaggio figurato delle Upanishad si è in larga parte sviluppato dal genere di linguaggio
figurato dei Veda e sebbene esso solitamente preferisca la svelata chiarezza di una immagine
direttamente illuminante, a volte esso usa gli stessi simboli in un modo che è profondamente simile
allo spirito e all’aspetto meno tecnico del metodo di quel simbolismo più antico.
E’ in larga misura questo elemento non più afferrabile dal nostro modo di pensiero che ha
sconcertato certi studiosi occidentali e li ha fatti affermare che queste scritture sono una
combinazione delle più alte speculazioni filosofiche con i primi goffi balbettii della mente bambina
dell’umanità.
Le Upanishad non rappresentano uno scostamento rivoluzionario dalla mente vedica, dal suo
temperamento e dalle sue idee fondamentali, piuttosto una continuazione e uno sviluppo e in una
certa misura un ampliamento nel senso di una resa in aperta espressione di tutto ciò che fu tenuto
nascosto nel discorso simbolico dei Veda come un mistero e un segreto.
Esse iniziano a raccogliere il linguaggio figurato e i simboli rituali dei Veda e dei Brahmana e a
trasformarli in modo da esprimere un senso interiore e mistico che serve come una sorta di punto di
partenza psichico per la propria filosofia, più evoluta e più puramente spirituale. Esiste un grande
numero di passaggi specialmente nelle Upanishad in prosa che sono interamente di questo genere ed
azione, in un modo recondito, oscuro e persino incomprensibile per il pensiero moderno, con il senso
psichico di idee allora comuni nella mente religiosa vedica, la distinzione tra i tre generi di
Veda, i tre mondi e altri soggetti simili; ma, conducendo come fanno nel pensiero delle Upanishad a
più profonde verità spirituali, questi brani non possono essere scartati come infantili aberrazioni
dell’intelligenza privi di senso e di ogni rintracciabile rapporto con il più alto pensiero nel
quale essi culminano. Al contrario troviamo che essi possiedono un significato sufficientemente
profondo quando riusciamo a penetrare il loro significato simbolico.
Questo significato si mostra in una ascesa psicofisica a una conoscenza psicospirituale per la
quale noi useremmo oggi termini più intellettuali, meno concreti e immaginativi, ma che è ancora
valida per coloro che praticano lo yoga e riscoprono i segreti del nostro essere psicofisico e
psicospirituale.
Passaggi tipici di questo genere di espressione peculiare di verità psichiche sono la spiegazione
di Ajatashatru del sonno e dei sogni o i brani della Prashna Upanishad sul principio vitale e le sue
azioni, o ancora quelli in cui l’idea vedica della lotta tra dèi e demoni è ripresa e guadagna il
suo significato spirituale e le divinità vediche, più chiaramente che nel Rig o nel Sama Veda, sono
caratterizzate e invocate per la loro funzione interiore e per il loro potere spirituale.
Le Upanishad abbondano di passaggi che sono ad un tempo poesia e filosofia spirituale, di chiarezza
e bellezza assolute, ma nessuna traduzione priva delle suggestioni e dei solenni e sottili e
luminosi echi di senso delle parole e dei ritmi originali, può dare alcuna idea del loro potere e
della loro perfezione.
In altri le più sottili verità psicologiche e filosofiche sono espresse in modo completamente
sufficiente senza mancare di una perfetta bellezza nell’espressione poetica e sempre in modo tale da
vivere nella mente e nell’anima e non essere semplicemente offerte alla comprensione intelligente.
C’è in alcune delle Upanishad in prosa un altro elemento di vivido racconto e tradizione che ci
restituisce, sebbene solo in brevivisioni fugaci, il quadro di quella animazione e di quel movimento
di ricerca spirituale e di passione verso la più alta conoscenza che hanno reso possibili le
Upanishad.
Le scene del mondo antico rivivono davanti a noi in alcune pagine, i saggi che siedono nei boschi
pronti ad esaminare e ammaestrare chi si presenta, prìncipi e dotti Bramini e grandi proprietari
terrieri alla ricerca della conoscenza, il figlio del re nel suo carro e il figlio illegittimo della
serva, ricercando ogni uomo che avrebbe potuto portare in se stesso l’idea della luce e la parola
della rivelazione, le tipiche figure simboliche e personalità Janaka e la sottile mente di
Ajatashatru, Raikwa del carro, Yoinavalka soldato della verità, calmo ed ironico, che prende con
entrambe le mani senza alcun attaccamento i beni del mondo e le ricchezze spirituali e lascia alla
fine tutti i suoi averi per peregrinare come un asceta senza casa, Krishna figlio di Devaki che udì
una sola parola della Rishi Gora e conobbe immediatamente l’Eterno, gli Ashram, le corti di re che
furono anche ricercatori e conoscitori spirituali, le grandi assemblee sacrificali dove i saggi si
incontravano e confrontavano la loro conoscenza.
Così noi vediamo come nacque l’anima dell’India e come scorse questo grande canto delle origini nel
quale essa si levò in volo dalla terra verso i supremi cieli dello spirito.
I Veda e le Upanishad non sono solo la bastevole sorgente della filosofia e della religione
indiana, ma di tutta l’arte, la poesia e la letteratura indiana.
Fu l’anima, il temperamento, lo spirito ideale in essi formato ed espresso che costruì in seguito
le grandi filosofie, edificò la struttura del Dharma, testimoniò la sua eroica gioventù nel
Mahabharata e nel Ramayana, si intellettualizzò infaticabilmente nell’epoca classica della sua
maturità, produsse così tante intuizioni originali nella scienza, creò un così ricco fervore di
esperienze estetiche, vitali e sensibili, rinnovò la sua essenza spirituale e psichica nei Tantra e
nei Purana, si gettò nella magnificenza e nella bellezza delle linee e del colore, scolpì e fuse il
suo pensiero e la sua visione nelle pietre e nel bronzo, si riversò in nuovi canali di
autoespressione nei linguaggi successivi e ora dopo una lunga eclissi riemerge sempre identico nella
diversità e pronto per nuova vita e nuova creazione.
La fissata concezione fondamentale del Vedanta è che là esiste in qualche luogo – e non potremmo
non trovarla – accessibile all’esperienza o all’autorivelazione anche se negata alla ricerca
puramente intellettuale, una verità sola omnicomprensiva e universale nella luce della quale
l’intera esistenza si trova rivelata e chiarita nella sua natura e nel suo fine.
Questa esistenza universale, con tutta la moltitudine della sua realtà e la diversità delle sue
forze, è una in sostanza ed origine; ed esiste una quantità non conosciuta, X o Brahman, alla quale
essa può venire ridotta, perché da lui è originata e in lui e attraverso di lui persiste. Questa
quantità non conosciuta è chiamata Brahman.
Ma intanto i veggenti dell’antica India avevano completato, nei loro esperimenti e sforzi di
disciplina spirituale e di conquista del corpo, una scoperta che nella sua importanza per il futuro
della conoscenza umana oscura le intuizioni di Newton e Galileo; persino la scoperta del metodo
induttivo e sperimentale nella Scienza non è risultato così fondamentale; perché essi penetrarono
sino ai suoi processi ultimi il metodo dello yoga e attraverso il metodo dello yoga si elevarono al
culmine di una triplice realizzazione.
Essi compresero dapprima come una realtà l’esistenza, aldisotto del flusso e della molteplicità
delle cose, di quella suprema Unità e immutabile stabilità che era stata sino ad allora ipotizzata
solo come una teoria necessaria, una inevitabile generalizzazione.
Giunsero a comprendere che quello è la sola realtà e tutti i fenomeni non sono che le sue apparenze
e le sue sembianze, che quello è il vero sé di tutte le cose e i fenomeni non sono che le sue vesti
e i suoi ornamenti.
Essi impararono che quello è assoluto e trascendente e, perché assoluto e trascendente, perciò
eterno, immutabile, indiminuibile e indivisibile.
E guardando allo sviluppo passato del pensiero, compresero che questa era anche la meta alla quale
li avrebbe condotti il puro ragionamento intellettuale.
Poiché ciò che è nel Tempo deve nascere e morire; ma l’Unità e la Stabilità dell’universo sono
eterne e devono perciò trascendere il Tempo.
Ciò che è nello Spazio deve crescere e diminuire, possedere parti e relazioni, ma l’Unità e la
Stabilità dell’universo non sono diminuibili, non sono aumentabili, sono indipendenti dalla
modificazione delle proprie parti e non toccate dal mutarsi delle loro relazioni, e devono perciò
trascendere lo Spazio; e se trascendono lo Spazio non possono possedere parti, perché lo spazio è la
condizione della divisibilità materiale; la divisibilità deve perciò essere, come la morte,
un’apparenza e non una realtà.
Infine ciò che è soggetto alla Causalità è necessariamente soggetto al Cambiamento; ma l’Unità e la
Stabilità dell’universo sono immutabili, identiche a ciò che furono negli eoni trascorsi e a ciò che
saranno gli eoni futuri e devono perciò trascendere la Causalità.
Questa fu dunque la prima realizzazione ottenuta attraverso lo Yoga, nityonityanam, l’Eterno Uno
nella moltitudine transitoria.
Allo stesso tempo essi compresero una verità interiore – una verità sorprendente; compresero che il
sé trascendente e assoluto dell’universo costituiva anche il sé degli esseri viventi, anche il sé
dell’uomo, l’essere supremo tra quelli che abitano il piano materiale sulla terra.
Il Purusha, l’io conscio nell’uomo che aveva sconcertato i Sankhyas, si è rivelato nella sua realtà
ultima esattamente identico a Prakriti, la sorgente apparentemente non conscia della realtà; la non-
coscienza di Prakriti, come molto altro, si è dimostrata un’apparenza, non una realtà perché dietro
ogni forma inanimata una intelligenza conscia all’opera è, agli occhi dello yogi, luminosamente
autoevidente.
Questa fu dunque la seconda realizzazione ottenuta attraverso lo Yoga, cetanascetananam, la
Coscienza una nella moltitudine delle coscienze.
Infine alla base di queste due realizzazioni se ne trova una terza, la più importante per la nostra
umanità, cioè che il sé trascendente in ogni uomo è così completo perché esattamente identico al sé
trascendente dell’universo; perché il trascendente è indivisibile e il senso dell’individualità
separata non è che una delle apparenze fondamentali dalle quali la manifestazione dell’esistenza
fenomenica perpetuamente dipende.
In questo modo l’Assoluto, che sarebbe altrimenti aldilà di ogni conoscenza, diventa conoscibile; e
l’uomo che conosce il suo intero sé conosce l’intero universo.
Questa stupenda verità è per noi rinchiusa nelle due famose formule del Vedanta, “so ham”, Egli ed
io, e “aham brahma asmi”, io sono il Brahman, l’eterno.
Basata su queste quattro grandi verità, nytonityanam, cetanascetanam, so ham, aham brahma asmi,
come su quattro possenti pilastri la suprema filosofia delle Upanishad ha eretto il suo fronte tra
le più lontane stelle.
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