Vedana e i gatti

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Vedana e i gatti

di Chandravimala Candiani

Di giorno quando i gatti sono intensi
pensi che il loro pelo offuschi i sensi.
Di notte quando i gatti sono immensi
si ricopre di pelo quel che pensi.
(Toti Scialoja)

Sono stata a Pomaia. Per un ritiro con Corrado (n.d.r.:Pensa).

I primi giorni, le istruzioni erano dirette alla nuda attenzione al respiro. I primi giorni, li ho passati a rimproverarmi. “Non sto affatto col respiro, sto pochissimo col respiro, dopo tanto tempo io ancora: penso!”.

Alla fine del secondo giorno, mentre camminavo vicino allo Stupa, mi sono fermata di colpo e mi sono detta: “Che cos’ho?”.

Che cosa mi impedisce di camminare, semplicemente, un passo dopo l’altro, senza pretese?

Ho sentito una voce dentro di me dire: “Sto male, non ne posso più di questi rimproveri, sono stanchissima” e ho capito che era la mia mente e mi si è stretto il cuore per lei. Dopo tutto, cosa deve fare una mente, se non pensare?

Allora, le ho mandato metta, così: “Oh, che tu possa essere felice e in pace, sana e forte, nella sicurezza e nell’agio!”.

Una mente felice e in pace, sana e forte, nella sicurezza e nell’agio? Mmmm!

Quando sono tornata a sedere, per la prima volta ho sentito la testa, non la mente, la testa, una parte del corpo, semplicemente una parte del corpo. E ho sentito che potevo ospitare i pensieri, essere vasta abbastanza da lasciarli essere, insieme ai rumori, al respiro, alle sensazioni. Chi sono io per decidere che i pensieri non vanno bene?

E ho sentito anche che il momento più importante era stato quando, accorgendomi della sofferenza della mente, ho detto: “Oh!”. Da quel momento “oh” è diventata la mia parola magica. Oh, un suono! Oh, mi sono persa! Oh, sono qui! Oh, il respiro! Oh, che freddo! Lo stupore non è moralista, lo stupore è innocente.

Il giorno dopo, Corrado ha parlato di vedana. Per quello che ho potuto ascoltare, vedana è il tono di una percezione, il sapore che accompagna qualsiasi fenomeno. Tutto ha una suo vedana: piacevole, spiacevole, neutra.

Non so perché, ma appena ho udito questo insegnamento, ho sentito il petto che si allargava, la mente felice, come dire: “Ah, questo!” ma non sapevo ancora bene perché.

Uscendo per camminare, manciate di rondini festeggiavano un cielo pieno di vicende: nuvole, vento, un po’ di pioggia, sole, vento, nuvole, un po’ di pioggia. Le ho guardate: piacevole! e sono andata.

Ho imboccato il vialetto verso lo Stupa, il vento mi ha tolto la sciarpa: “Cretino!” ho pensato. E subito dopo: spiacevole! Spiacevole il vento, ma spiacevole soprattutto la mia rabbia, faceva molto più male e era molto più meschina del vento che se ne frega se una sta camminando consapevolmente o sta andando a ubriacarsi al bar.

E poi sono arrivati i gatti. Vedana e i gatti.

Quest’anno a Pomaia c’erano tanti gatti, e i gatti sono da sempre una mia grande passione. Di solito, quando vedo un gatto, cerco subito di conquistarlo, mi precipito ad accarezzarlo, ne chiedo i favori, gli parlo. Quel giorno, arrivava ancheggiando proprio il gatto rosso, il mio preferito, con gli occhi gialli, falsissimo e innocente.

“Miao…” mi ha detto con la testa di lato. Mi sono fermata, l’ho guardato profondamente, ho respirato: “Piacevole” ho pensato, e poi, più onestamente: “Meravigliosamente piacevole!” e sono rimasta a godermi il cuore largo per l’emozione estetica della sua bellissima forma e per il sentimento gentile del suo carattere così poco formale eppure così elegante.

Ho ricominciato a camminare, il gatto mi guardava perplesso e ero perplessa anch’io, perché sì, l’emozione piacevole c’era stata, l’avevo riconosciuta, assaporata, era andata, ma: lui? Di solito, con gli animali entro davvero in relazione, cosa restava?

Mi sono fermata di nuovo a guardarlo e ho provato a non uscire dagli occhi, a non precipitarmi avidamente neanche sulla sua forma. E mi sono sentita triste. “Spiacevole” ho bisbigliato piano piano, perché faceva male.

Sì, spiacevole, perché ho visto che avevo sempre trattato i gatti come dei caloriferi ambulanti, dei magazzini di calore e di coccole, dei sostituti della mia incapacità di toccare gli esseri umani, del loro timore di essere toccati.

Ci siamo guardati negli occhi, io e il gatto rosso, e il cuore ha detto: “Che tu possa essere felice e in pace, sano e forte, che tu possa vivere nella sicurezza e con agio” e solo allora ho visto, sotto la pelliccia del gatto, la sua anima a forma di gatto, la sua storia personale, il suo essere un animale in un centro buddhista, la sua fiducia negli esseri umani, insomma lui, non un gatto, un calorifero ambulante.

Tornando verso il Gompa, arrivavano tanti pensieri sulla mia vita, sulla mia infanzia, sulle mie radici, sulla mia mente: spiacevole, spiacevole, spiacevole; ma tutto cadeva come in un grande lago di leggera, tenera malinconia. Allora ho inventato un’ altra parola magica: “Anche ora assapora” e ho assaporato la mia tristezza. Era così antica. E così proibita in Occidente. Solo in India si vedono facce davvero tristi, solo tristi, e non anche arrabbiate. Non era più la mia tristezza, ma la tristezza.

E allora mi sono ricordata di un altro insegnamento dato da Corrado: davanti all’avversione o all’attaccamento, oltre a riconoscere se la sensazione è piacevole, spiacevole o neutra, potete chiedervi: “È mio? Sono davvero io tutto questo?”.

E allora semplicemente l’ho fatto.

Mi sono chiesta a ogni moto della mente: “Ma è mio?”.

Oh no, niente è mio: tutto quello che posso vedere, osservare di me, non sono io.

E nello stesso tempo tutto è mio: posso ospitarti spazzatura e grazia interiore, quindi ti riconosco come mia, ma non sono te, posso ospitarti ossessione estetica per la bellezza e l’autenticità, ma non sono te, posso ospitarti auto-disprezzo, ma non sono te.

La mente è una sentinella dell’io, appena qualcosa o qualcuno minaccia un suo territorio, la mente si mette sull’attenti e urla: “Nemico in vista!”. La mente parla perché c’è l’io e l’io è piccolo e meschino, noi siamo molto molto di più. Quando abiterò di più nel cuore e meno nell’io, anche la mente tacerà di più, per ora va bene così, non sono pronta a un silenzio più grande. Benvenuta mente. Fai pure il tuo lavoro, ma io non sono te.

A quel punto ho sentito un inchino al posto del cuore, avrei voluto inchinarmi, al Buddha, a Corrado, all’insegnamento, alla comunità, a quella cosa che sprigiona i Buddha e i gatti, ed è arrivata un’altra sorpresa.

Mi chiedevo in questi giorni come coltivare la devozione, che per me è molto importante, mi fa sentire meno arrogante e più grata, mi fa sentire dentro una tradizione, dentro un albero sano. C’era solo qualche inchino, qualche rapimento del cuore ma… e di colpo ho sentito: la meticolosità nella pratica è la devozione. Non cercare gesti particolari, onora il passo, onora il silenzio, onora il respiro, il cibo, te stessa, i gatti, onora.

E mi sono ricordata che cinque anni fa ho sentito che erano finiti i miei anni di emigrazione in India, morto il Maestro tanto amato, nato il mio desiderio di etica e di vita ordinaria. A Delhi comprai una piccola testa di Buddha in legno di sandalo, comunissima, ma con un sorriso davvero gentile. Ero molto sperduta e non sapevo nemmeno bene cosa stessi facendo.

Tornata a vivere a Milano, la misi nella stanza vuota in cui pratico, e ogni mattina e ogni sera mi inchinavo tre volte al

Buddha, non sapevo assolutamente perché lo stessi facendo, ero solo molto sola, senza amici, senza lavoro, senza gatti, con un compagno che mi lasciava la libertà di essere più indietro dei miei gesti senza giudicarmi, solo un po’ perplesso e preoccupato.

E’ venuto tutto da lì: ho incontrato Corrado, il Dharma, Voi.

Grazie!

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