“VERO MA NON GIUSTO, GIUSTO MA NON VERO”

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“VERO MA NON GIUSTO, GIUSTO MA NON VERO”

del venerabile Ajahn Sumedho

© Ass. Santacittarama, 2012. Tutti i diritti sono riservati.

SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.

Traduzione di Gabriella De Franchis

Da un discorso di Luang Por Sumedho alla Leicester Summer School nel 1995.

Se pensiamo che praticare il Dhamma riguardi l’ottenimento di qualcosa, ci facciamo un’idea che poi
cercheremo di concretizzare. Ciò che raccomando è di credere solamente nella qualità di attenzione
della mente, nella presenza mentale e di abbandonare il desiderio di trovare qualcosa alla quale
aggrapparsi. La consapevolezza c’è, e anche la sensibilità, ma non è sperimentabile in termini
personali. C’è soltanto la consapevolezza di quanto sta accadendo, dei sentimenti, o degli stati
d’animo che si presentano in quel dato momento. Questa si può chiamare consapevolezza intuitiva, non
programmata o condizionata da pensieri, ricordi o percezioni.

Tuttavia, non appena pensiamo a noi stessi, a come siamo e a quello che facciamo, diventiamo ‘una
persona’. Difatti, uno dei grossi problemi della meditazione è che il senso dell’io si rafforza
perché ci prendiamo troppo seriamente. Questo ci fa vedere ai nostri occhi come persone religiose
che si dedicano a cose serie, come la comprensione della verità. Ci sentiamo importanti. Non siamo
semplicemente persone frivole e ordinarie che vanno al supermercato e guardano la televisione…
Naturalmente, questa serietà ha i suoi vantaggi; ci potrebbe incoraggiare ad abbandonare attività
assurde e a intraprenderne di più significative, ma può anche portare all’arroganza e alla
presunzione, alla sensazione di essere una persona con principi morali speciali e particolari fini
altruistici, o anche semplicemente di essere venuti su questo pianeta come una specie di messia!

Questa presunzione ci fa prendere tanto seriamente da farci perdere il quadro della situazione.
Questo è un problema anche nella vita monastica. Possiamo diventare incredibilmente seri riguardo la
nostra integrità morale, la disciplina, la dedizione e quant’altro. Ma una considerazione che può
essere fatta in merito alle convenzioni religiose, come quelle del Buddhismo Theravada – che pone
l’enfasi sulla disciplina Vinaya, la pratica della meditazione e la purezza della tradizione – è che
esse contengono concetti che sono ‘veri ma non giusti, giusti ma non veri’.

Una volta, per esempio, andai a trovare un maestro che mi disse che non abbiamo bisogno della
disciplina o delle regole del Vinaya: ‘Tutto quello che devi fare è essere consapevole. La
consapevolezza è sufficiente. Così quando tornai da Ajahn Chah glielo raccontai e lui mi disse:
‘Vero ma non giusto, giusto ma non vero’. Perché, alla fin fine, non abbiamo bisogno di regole, il
semplice essere consapevoli è la Via. Però molti di noi non partono da una prospettiva illuminata e
quindi bisogna trovare i mezzi opportuni per contemplare e sviluppare la consapevolezza. Le tecniche
di meditazione, le regole disciplinari e così via, sono strumenti necessari per rafforzare la
riflessione e la consapevolezza.

I cinque precetti morali ci forniscono un modello per gettare le basi della consapevolezza
dell’azione e della parola. Ci aiutano a essere consapevoli. Mentre l’idea di essere liberi di
potere fare tutto ciò che si desidera purché si rimanga consapevoli, è per definizione solo un’idea.
E’ un problema di ‘vero ma non giusto, giusto ma non vero’: è vero, ma non sempre e per forza
giusto.

Se afferriamo un simile pensiero possiamo scusare qualsiasi cosa; possiamo essere molto consapevoli,
per esempio, mentre facciamo una rapina in banca o commettiamo un omicidio perfetto. Comunque, senza
un modello morale sul quale riflettere, è solo la consapevolezza di un animale che rischia di essere
catturato.

Questo vale anche per quelle situazioni in cui la nostra vita è messa seriamente in pericolo – come
quando si scala una montagna: ci dimentichiamo di noi stessi e dei nostri problemi, la presenza in
quel momento è automatica. Poiché siamo lontani dalla monotonia e dal grigiore della nostra
quotidianità c’è una sorta di euforia in questo stato mentale; la coscienza è concentrata e attenta.
Però non possiamo vivere sempre pericolosamente e la maggior parte della nostra vita non è
particolarmente entusiasmante. è quella che è. Facciamo cose semplici. Mangiamo, ci laviamo, ci
vestiamo, ci svestiamo, dobbiamo cucinare, lavare i piatti, dare da mangiare al gatto, andare a
lavorare, e andare d’accordo con la nostra consorte, con i figli, con i colleghi.

Per la meditazione è la stessa cosa: non è un’esperienza estrema o pericolosa che ci impone di
essere consapevoli. Di solito meditiamo in luoghi sicuri, seduti, in piedi o camminando e
contempliamo il respiro del nostro corpo. è una cosa semplice. Naturalmente durante la meditazione a
volte si attraversano uno o più momenti in cui la mente è totalmente calma e in pace. E pensiamo “è
questo che voglio!”. Ma ovviamente quel momento va via, e il giorno dopo, quando ci mettiamo a
meditare, cerchiamo di riviverlo. Non è però possibile perché quello che stiamo facendo è cercare di
avere qualcosa di cui abbiamo soltanto un ricordo piuttosto che avere fiducia e lasciare che, in
base alla loro vera natura, le cose cessino. Il vero scopo, quindi, è quello di osservare
semplicemente le nostre tendenze abituali come condizioni che sorgono e si dissolvono.

Ponendoci come osservatori, nella mente possono emergere paure represse e stati emotivi. Iniziamo a
riconoscere questi stati coscientemente, piuttosto che passare ad altro e fare qualcosa che ci
distrae per evitarli. Accresciamo la nostra disponibilità ad accogliere nella coscienza ciò che non
ci piace o che non desideriamo, la nostra disponibilità a guardarlo e a lasciarlo andare.
Rinunciando a quella condizione, la abbandoniamo; non sopprimendola, ma lasciandola essere.

La vita religiosa è una vita di rinuncia, in cui rinunciamo alle cose, le abbandoniamo e le lasciamo
andare. A una mente mondana, ‘rinunciare’ sembra come sbarazzarsi di qualcosa, o una condanna al
mondo dei sensi, un rifiuto perché lo si considera negativo o sbagliato. Ma la rinuncia non è un
giudizio morale rispetto a qualcosa, significa piuttosto allontanarsi da ciò che ci complica la
vita, la rende più difficile e rivolgersi verso l’estrema semplicità della pura consapevolezza nel
momento presente. Perché l’illuminazione è qui e ora; la Verità è ora. Non c’è nessuno che può
diventare un qualcosa. Non c’è nessuno che nasce e muore, c’è solamente questo eterno ora. Ci
possiamo sintonizzare su questa consapevolezza ora, mentre si abbandonano le apparenze e le tendenze
abituali e ci rivolgiamo alla semplice riflessione sul momento presente.

Stiamo parlando di cose che comprendiamo e che ci sembrano abbastanza semplici, ma la tendenza della
nostra mente è di renderle un problema. Non abbiamo la fede o la fiducia o la volontà di
abbandonarci totalmente al momento presente. Quindi, l’affermazione ‘l’illuminazione è ora’, può
farci sentire insicuri o confusi. Inoltre ci sono idee diverse sull’illuminazione. è istantanea o
graduale? l’illuminazione avviene ora o è qualcosa che arriverà progressivamente, a poco a poco, una
vita dopo l’altra? Entrambe le cose sono vere ma non giuste, giuste ma non vere. Sono solo modi
diversi di contemplare e riflettere sull’esperienza del momento.

L’idea dell’illuminazione istantanea e immediata affascina molto la mente: una pasticca di LSD e ci
siamo – senza bisogno di alcuna formazione monastica o di rinunciare a qualcosa. Illuminazione
immediata! Ma bisogna riconoscere i limiti del pensiero. Prendete la stessa parola ‘illuminazione’.
Forse la intendiamo come un’esperienza fantastica in cui siamo sopraffatti dalla luce e trasformati
da esseri egoisti e illusi in esseri assolutamente saggi. Magari vediamo l’illuminazione come
maestosa, verosimilmente irraggiungibile. Molti ritengono di non essere in grado di raggiungere
stadi così alti perché hanno una visione negativa della propria personalità. Si ha la tendenza ad
enfatizzare i propri difetti, le debolezze, le brutte abitudini che vengono visti come ostacoli
all’illuminazione.

è questa l’illusione che si ha quando si agisce partendo da un concetto di personalità. Consideriamo
la meditazione come una cosa che ‘io sto facendo’ o qualcosa che ‘io devo fare’. Pensiamo: “Sono una
persona che deve fare questa cosa e, quando l’avrò fatta, potrò fare quest’altro”. I principi della
meditazione si possono seguire con l’atteggiamento di ottenere e raggiungere vari livelli di
realizzazione – proprio come si fa per prendere una laurea. Gli occidentali colti e intelligenti che
diventano monaci o monache nella tradizione Theravada hanno, in effetti, la tendenza ad interpretare
la Vita Santa in termini di ottenimenti, come ad esempio ottenere ‘l’entrata nella corrente’
(sotapanna). La mente pensante e condizionata, concepisce questo tipo di realizzazione come un
traguardo personale: un avere fatto qualcosa che gli altri non hanno fatto.

In realtà, nella tradizione monastica c’è una regola che proibisce di rendere note le possibili
realizzazioni spirituali. In Thailandia Ajahn Chah, nonostante lui non lo abbia mai confermato, era
considerato un arahant, ma poi, quando lo vedevano fumarsi una sigaretta pensavano, “Gli arahant non
fumano. Lui non può essere un arahant!”. La mente tende ad avere un’idea di arahant come di una
persona raffinata, molto buona, che non farebbe mai nulla di sconveniente e sempre perfetta in
quello che dice e nel modo in cui vive. Vogliamo che siano perfetti per noi e quindi, quando vediamo
queste pecche rispetto all’idea che ci eravamo fatti, diventiamo critici, delusi, amareggiati,
sprezzanti. Ma questo è un lavorio della nostra mente. Siamo noi a creare i nostri arahant e poi se
uno di loro, o il nostro maestro, si comporta in modo diverso da come pensiamo che dovrebbe
comportarsi, ci sentiamo sconvolti o delusi. Oppure possiamo cercare di evitare ogni possibile
dubbio giustificando il suo comportamento: “Lui si può comportare così perché è un essere
illuminato!” In ogni caso quello che possiamo fare è osservare tutto il processo di proiezione, la
creazione di un nostro ideale di persona. Cominciamo a vedere che si tratta soltanto di un ideale e,
se manteniamo questa pratica di presenza mentale, vediamo che non sta a noi dare un giudizio morale
categorico sulle altre persone o sul nostro maestro. Non è affar nostro giudicarli buoni o cattivi.
E questo è un sollievo. Possiamo semplicemente stare ad ascoltare ed essere consapevoli delle nostre
reazioni condizionate nei confronti di quello che stiamo vivendo.

Impariamo così che ponendo l’accento sulla nostra personalità, creiamo problemi, perché le qualità
personali sono differenti per ognuno di noi. Tutti condividiamo i soliti problemi umani: la
vecchiaia, le malattie, la morte; ma poi ci sono gli atteggiamenti, le aspettative culturali e le
nostre supposizioni che ci rendono diversi, e questi si formano nella nostra mente dopo la nascita.
Per questo dico spesso alla persone: “Qualsiasi cosa pensi di essere, non è quello che sei”. La
personalità, la consapevolezza di sé, le paure e i desideri della mente, sono quello che sono. Nella
pratica del Dhamma non cerchiamo di liberarcene o di avvalorarli, non li rendiamo un problema o un
ostacolo. Siamo disposti a lasciare che siano quello che sono. Li sentiamo in questo modo, hanno
queste qualità, sorgono e cessano e nella loro cessazione c’è la realizzazione della pace, la
beatitudine e la serenità del semplice essere – e in questo non c’è un sé. Diciamo che è vedere il
Dhamma, così com’è – non si tratta assolutamente di diventare qualcosa. Ognuno di noi ha questa
potenzialità, la capacità di realizzarlo.

Lo scopo della meditazione buddhista, quindi, è di lasciare andare le condizioni della mente. Ciò
non significa negarle, sbarazzarsene o giudicarle, significa non crederci, non starci appresso e
sentirle invece come Dhamma, come condizioni della mente che sorgono e cessano. Impariamo ad avere
fiducia nell’essere soltanto colui che ascolta, colui che osserva con un atteggiamento di
consapevolezza risvegliata e attenta, piuttosto che essere qualcuno che cerca di meditare per
ottenere qualche tipo di risultato. Poi con la consapevolezza siamo capaci di andare oltre questo
condizionamento della mente verso la pura coscienza che non è condizionata, ma che è come uno
sfondo, una vacuità, un foglio bianco sul quale si scrivono le parole. Le nostre percezioni sorgono
e svaniscono su quel foglio bianco, quella vacuità.

Quindi contemplate questo processo. Quando cominceremo ad ascoltare e ad osservare di più –
piuttosto che cercare soltanto di raggiungere qualcuno di quegli stati di concentrazione (samadhi)
di cui leggiamo nei libri – appena ci rilasseremo, osserveremo e ascolteremo, avremo maggiori
possibilità di scoprire quella vacuità, quel non-sé. Questo si chiama ‘rinuncia’ o ‘abbandono’;
parole che possono sembrare forti per una mente mondana. Però non si tratta di una pratica di
annientamento o di distruzione, è piuttosto la volontà di lasciare andare le cose, di permettere che
le cose siano quello che sono e lasciare che cessino. In altre parole non aggrappiamoci o non
identifichiamoci con niente, fidiamoci piuttosto di quello stato di pura attenzione consapevole del
momento presente. Non è necessario dover fare qualcosa o diventare qualcuno.

Senza queste pressioni, senza la coercizione della mente, possiamo imparare dalla stessa vita.
Comprendiamo il Dhamma – il modo in cui le cose sono – e quindi non creiamo o proiettiamo più nessun
tipo di paura, di desiderio, di interminabile aspettativa sulle altre persone o verso il mondo in
cui viviamo. Facciamo tutto quello che possiamo, ma non ci dobbiamo sentire più infinitamente delusi
o critici, perché abbiamo la fede, la fiducia e la saggezza di imparare dalle esperienze della vita,
così come accadono. Diventiamo vecchi, facciamo l’esperienza della perdita dei nostri cari,
dell’invecchiamento del corpo, e c’è il momento finale della morte del corpo. Piuttosto però che
pensare: “sono nato”, o “morirò”, possiamo andare oltre questo tipo di pensieri osservandoli come
condizioni della mente. Così non ci aggrappiamo più a nessun particolare punto di vista.

Questo processo demolisce l’illusione di essere un corpo umano, un uomo o una donna, o una
personalità; rimane soltanto la purezza della coscienza. Naturalmente ce ne dimenticheremo, le
vecchie abitudini ritorneranno e ci domineranno, ma noi ora sappiamo che non le dobbiamo combattere,
che non dobbiamo opporre resistenza né farne un problema. Impariamo come lasciarle andare, ci
orientiamo verso lo sviluppo di mezzi abili per affrontare le nostre ossessioni. Così la saggezza è
al lavoro, e piuttosto che aggrapparci a tecniche e punti di vista sulla realizzazione, impariamo a
usare le convenzioni del Buddhismo Theravada.

Evam

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