di Guido Brunetti
25 giugno 2015
I progressi delle neuroscienze ci hanno rivelato che noi condividiamo con gli altri animali la maggior parte dei nostri geni e dell’ architettura del nostro cervello (Gazzaniga). Siamo “caratterizzati” dai medesimi comportamenti chimici e abbiamo le “medesime reazioni fisiologiche” degli altri animali. Pensiamo poi che anche il nostro cane Kimi, gran dispensatore di affetto, soprattutto verso nostro figlio Valentino, possa “provare” amore, odio, tenerezza, pena, empatia e altro ancora. Addirittura, alcuni scienziati dell’Università della Georgia hanno dimostrato che anche i ratti possiedono la capacità di “riflettere” sui propri pensieri, capacità che viene chiamata metacognizione. Il neuro scienziato Ralph Greenspan ha mostrato che le mosche dormono come noi ed esprimono caratteristiche genetiche che possediamo noi.
Il sistema nervoso dei vermi, degli insetti e dei vertebrati, dai pesci all’uomo, deve aver avuto un “unico predecessore comune” esistito seicento milioni di anni fa. Darwin, già nel 1859, ipotizzò che la vita derivi da un’unica forma originaria, poiché tutti i viventi hanno moltissimo in comune dal punto di vista chimico. La biologia moderna ha fornito al riguardo solide basi a questa idea lungimirante. Possiamo dire in sostanza che la maggior parte delle capacità umane può essere messa in relazione “con antecedenti nel mondo animale”. Invero, nel corso della storia, scienziati e filosofi hanno alternativamente negato la nostra “unicità” oppure l’hanno riconosciuto. A renderci “unici” e “differenti”- scrive P.T. Rakic- “è il nostro cervello”. Il cervello è l’organo che ci distingue dalle altre specie. Siamo perciò molto diversi dagli altri animali. Il cervello umano è dunque unico.
Dall’attività del cervello, nasce la mente (Marcus). Il fondamento della mente –scrive Francis Crick, uno dei due scopritori del DNA, si trova nel cervello. La mente- conferma Pinker- “è quello che fa il cervello”. Coscienza, autocoscienza, mente- insomma tutto ciò che si comprendeva nel concetto di anima o psiche (Hagner)- sono prodotti e regolati dal cervello. A sua volta, il cervello, per i neuroscienziati, è il frutto dell’interazione tra geni e ambiente. Rimane tuttavia il mistero di come dalla materia (il cervello) emerga l’immaterialità della mente e della coscienza. Fino al XX secolo, il compito di indagare sulla mente e la coscienza è stato assunto dalla filosofia.
Poi alla fine degli anni Ottanta cambia tutto. Cervello, mente e coscienza diventano oggetto di sperimentazione scientifica, un argomento appassionante e primario delle neuroscienze.
Oggi, le neuroscienze rappresentano uno dei campi di ricerca più in fermento, in virtù delle straordinarie scoperte sul cervello e la mente, come dimostra l’interessante libro di Neil V. Watson e S. Marc Breedlove “Il cervello e la mente” (Editore Zanichelli, Bologna 2014, pagine 479, euro 49). E’ un’opera fondamentale per comprendere le basi delle neuroscienze descritte secondo una prospettiva biologica e comportamentale e in un ambito scientifico unitario e di verifica delle ipotesi.
La vita mentale è il frutto di processi di apprendimento o invece il prodotto di programmi genetici innati? Per molto tempo, gli studiosi hanno sostenuto l’una o l’altra delle due concezioni. Grazie all’impiego di metodi sempre più efficaci, oggi sappiamo che la contrapposizione “innato- appreso” (nature and nurture) è superata: sono due facce della stessa medaglia. La mente infatti è definita da una chiara combinazione di fattori biologici innati ( i geni), e influenze ambientali, che sono fattori “collegati e inscindibili”. L’evoluzione ha forgiato il nostro cervello, il quale è continuamente modellato e rimodellato (neuroplasticità) dall’ambiente e dall’interazione con altre persone per tutta la vita (neurogenesi).
La ricerca in questo campo ha radici lontane e si è sviluppata sotto l’influenza di credenze magico-religiose, conoscenze popolari e antiche osservazioni. Nell’antico Egitto, si credeva nell’immortalità dell’anima. Nella Bibbia, il cervello non viene nominato, mentre il cuore è menzionato moltissime volte. Platone sosteneva l’esistenza di un’anima immateriale e immortale, mentre Aristotele riteneva che la mente fosse proprietà del cuore e Ippocrate attribuiva al funzionamento del cervello le emozioni, il pensiero, le percezioni. Da parte sua, Cartesio, uno dei principali esponenti del “dualismo”, ipotizzò che gli esseri umani avessero un’anima immateriale, oltre che un corpo materiale (res cogitans e res extensa).
Oggi, i neuroscienziati rifiutano il concetto di dualismo e sostengono la teoria che tutti i processi mentali sono processi cerebrali, cioè processi fisici (monismo). La ragione principale consiste nel fatto che una sostanza immateriale (l’anima, la mente) non può essere sottoposta ad indagine scientifica. Di qui, il riduzionismo di mente a cervello. Questa teoria ha contribuito all’emergere del concetto di “localizzazione”, l’idea che regioni diverse del cervello si specializzano nella produzione di comportamenti diversi. Gli albori del XXI secolo hanno portato una quantità di nuove conoscenze, progressi e scoperte. Sappiamo che il cervello viene sottoposto a continue modificazioni indotte dall’esperienza e dal comportamento, un fenomeno noto come “plasticità neurale” o “neuroplasticità”.
Abbiamo scoperto che certe esperienze e stati fisiologici possono modificare la velocità con la quale si formano nuovi neuroni nel cervello adulto (“neurogenesi”). La scoperta della neuroplasticità ha poi favorito la nascita delle “neuroscienze sociali”, una disciplina che utilizza i dati e i metodi delle neuroscienze per approfondire le basi biologiche del comportamento sociale, studiare gli effetti delle circostanze sociali sul cervello e in che modo avviene il processo di continua interazione tra fattori biologici e fattori sociali. Ultimamente, l’attenzione dei neuroscienziati si sta concentrando anche sulle modalità in cui prendiamo decisioni. E’ il settore della “neuroeconomia”, che impiega le nuove tecniche di diagnostica per immagini allo scopo di identificare le regioni del cervello che si attivano in varie circostanze che comportano processi decisionali, come la gestione delle risorse, il gioco e altri modelli economici tradizionali.
Una grande sfida per gli scienziati è la questione difficile, complessa e ancora misteriosa della coscienza, cioè della propria esistenza, dei propri pensieri, emozioni, esperienze soggettive. La coscienza è considerata dai neuroscienziati come una “facoltà del cervello” ed è al centro di molte ricerche, nonostante l’oggettiva difficoltà a definirla. Non abbiamo in realtà conoscenze concrete. Siamo lontani dalla comprensione della coscienza e della mente. I nostri stati interiori sono infatti privati, soggettivi, personali, e dunque non abbiamo idea di cosa sia l’esperienza interiore di un essere umano o di un animale. Se, ad esempio, diciamo a qualcuno che il cielo è azzurro non sapremo se la nostra sensazione di azzurro sia uguale alla sua. Come facciamo a sapere se ciò che chiamiamo “rosso” è uguale alla percezione che si crea nella mente di un altro soggetto?
Alcuni autorevoli neuroscienziati sostengono al riguardo che il problema della coscienza potrebbe risultare “impossibile da risolvere”. Autori come Flanagan, Popper e Lhermitte sostengono che cervello, mente e coscienza sono tra i più grandi misteri dell’universo e negano la possibilità che essi possano essere “spiegati, compresi e risolvibili”. Gran parte infine dell’attività del cervello è inconscia. Nella comprensione del cervello e delle basi biologiche del comportamento, decisiva è la ricerca sugli animali. Il progresso delle neuroscienze- sottolineano Watson e Breedlove – progredirebbe “alla velocità di una lumaca” se non fosse per la conoscenza che deriva dagli studi sui nostri cugini animali.
da neuroscienze.net
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