Visione di bellezza
Swami Siddheswarananda
– Visione di bellezza –
Abbiamo passeggiato nella città di Roma; abbiamo visitato il
Colosseo e altri ricordi della gloriosa epoca romana. Visitando l’interno
della Basilica di San Pietro, ho provato l’emozione più forte di fronte alla
Pietà di Michelangelo e alla cupola della Basilica.
Se mi si domandasse: “Com’è possibile pregare qui?”, io
risponderei: esistono due tipi di preghiera. La prima è quella che si
mormora nel silenzio e nella solitudine; la seconda, quella che si sente
salire dentro di sé di fronte alla maestosità e allo splendore di certe
opere d’arte.
La Basilica stessa è una “visione di bellezza”. Quando la si
guarda o quando si resta in silenzio davanti alla Pietà, si avverte una
sensazione dove il “prodigioso” e il “sublime” sono mischiati, e, incapaci
di dire una parola, non si può che pronunciare ‘Ah!’, o un’altra simile
esclamazione. Comunque, è la personalità intera che reagisce in questo
‘Ah!’.
La mente e il fisico non sono più separati. Si fondono, si “amalgamano”, al
punto che il senso dell’Ego sparisce. L’io che gioisce della bellezza dello
spettacolo va a raggiungere uno spettatore sconosciuto, per perdersi in lui.
E potrebbe essere la stessa visione degli artigiani di queste opere che egli
ritrova e nella quale svanisce.
In un certo senso questa preghiera è più nobile di quella che si
limita alla ripetizione del rosario, l’attenzione rivolta all’interno,
domandando ‘Signore, venite?’. In questa attitudine di introspezione che è
la nostra quando sgraniamo il rosario, noi separiamo l’interiore
dall’esteriore.
Questa posizione esige che noi diventiamo antarmukhi, cioè esige che ci
interiorizziamo. Bisogna eliminare il contatto con gli oggetti dei sensi. E’
la via indicata dalla Gita a proposito della meditazione. Respingere tutto:
bahia sparsha: contatti con il mondo esterno. Quando attraverso questo
metodo, lo spirito è diventato stabile, la luce della Realtà si riflette in
lui. Possiamo dire, spiritosamente, che la Realizzazione è accessibile
solamente ai “capitalisti” della vita spirituale, a 200 famiglie. In
effetti, è necessario un enorme capitale: disciplina, guru, studi, ecc.,
ecc.
L’altra forma di preghiera, quella che noi pronunciamo nel mezzo
della folla, sulla Piazza di San Pietro, o di fronte alla grandezza e alla
bellezza di uno spettacolo, è descritta nella Gita come la ‘Visione Cosmica
di Arjuna’ (Capitolo XI). Contemplando la maestosità di un tramonto, le
meraviglie di un paesaggio o le opere d’arte create dal genio umano senza
l’aiuto
di alcun “capitale”, il nostro essere interamente vibra e reagisce, e le
nostre diverse esclamazioni, espresse o taciute, sono la vera ‘preghiera’.
Può essere che Tagore abbia conosciuto un simile stato di
tensione interiore quando scrisse questi versi del Gitanjali:
“Lascia il tuo rosario, lascia il tuo canto, le tue salmodie.
Chi credi di onorare in questo buio e solitario angolo
Di un tempio di cui tutte le porte sono chiuse?
Apri gli occhi, e vedi che il tuo Dio non è davanti a te.
E’ là dove il contadino ara il duro suolo,
E al bordo del sentiero dove pena lo spaccapietre.
E’ con loro nel sole e nell’acquazzone,
I suoi vestiti sono coperti di polvere.
Privati, come Lui, del tuo mantello pietoso,
Scendi anche tu nella polvere.
Liberazione! Dove pretendi di trovare la liberazione?
Il nostro Maestro non si è forse gioiosamente fatto carico
Dei legami della Creazione? Si è unito a noi per sempre.
Esci dalle tue meditazioni e lascia in disparte i tuoi fiori e i tuoi
incensi!
I tuoi vestiti si strappano e si bagnano? Cosa importa!
Vai a raggiungerLo e mantieniti vicino a Lui
Nella fatica e nel sudore della tua fronte.”
Il contenuto di questo poema ha ferito numerosi nostri Swami. Ciò
nonostante, ignoriamo – o dimentichiamo – che lo stesso Sri Guru Maharaj
entrava spesso in samadhi quando si trovava in presenza di una ‘visione di
bellezza’, o in mezzo ad una folla. Questo perché la forza irresistibile di
questi inviti esteriori, simile ai fiotti di un’inondazione, trascina al di
là delle nostre strette mura (o meglio del nostro piccolo ego) la nostra
intera personalità. Il richiamo cosmico ci porta al silenzio e annichilisce
ogni tentativo di tradurre una tale esperienza il una forma qualsiasi di
linguaggio.
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– Da N°156 Vedanta – Gretz –
(Tradotto da Punto Ramakrishna – Gropparello)
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