di Vito Ferri e Florinda Romanazzi
Subito prima che Ninakawa morisse, gli fece visita il maestro di Zen Ikkyu.
«Devo farti da guida?» domandò Ikkyu.
Ninakawa rispose: «Sono venuto qui da solo e da solo me ne vado.
Che aiuto potresti darmi?».
Ikkyu rispose: «Se credi veramente che vieni e che vai, questo è il tuo errore.
Lascia che ti mostri il sentiero dove non si viene e non si va».
Con queste parole Ikkyu aveva rivelato il sentiero con tanta chiarezza che Ninakawa sorrise e spirò.
in: 101 Storie Zen pp. 68-69.
Sonno e morte, da millenni sono stati affiancati l’uno all’altra e legati da nessi eufemistici
(addormentarsi-morire), mitologici (per i Greci Hypnos, il dio del sonno, era fratello gemello di
Tanatos, dio della morte) o metaforici (la morte come un sonno eterno senza sogni). Il sonno, realtà
esperibile, reversibile, si è prestato come base per pensare la morte, di per sé non esperibile e
irreversibile. Ma anche lo stato di coscienza onirico, il sogno, è servito come mezzo
cognitivo-esperienziale per poter pensare la morte (pensiamo, ad esempio, al monologo di Amleto).
Negli ultimi tre decenni si è andato sempre più imponendo un ulteriore stato di coscienza che ha
posto in secondo piano il sonno e il sogno come modelli e metafore della morte. Anzi, questo stato
di coscienza, si è legato alla morte non più attraverso figure retoriche quali l’analogia o la
metafora, non più attraverso forme eufemistiche o parentele mitologiche: lo stato di coscienza di
cui parleremo, è stato descritto, e non solo da chi lo ha vissuto personalmente, come coincidente
con la stessa morte, che in tal modo è stata illusoriamente piegata alla dimensione esperienziale.
Questo abbattimento dello iato metaforico-linguistico, della tensione tra segno e simbolo, è da più
parti ritenuto una delle conseguenze del processo di desimbolizzazione tipico della cultura
post-moderna, un processo interessante, ma che qui non esamineremo. Dunque la morte è stata
ammantata dall’esperienza, e non è un caso che lo stato modificato di coscienza di cui parliamo è
stato denominato: “Esperienza di Pre-Morte” (noi preferiamo però l’espressione inglese: Near-Death
Experience, Nde). Grazie all’Nde la propria morte non solo diventa pensabile, ma anche “vivibile”:
si fa esperienza della morte. Chi “vive” una Nde può raccontarla come fa con i propri sogni, con le
esperienze di un viaggio in paesi lontani o con l’esperienza di una notte in discoteca. Noi viviamo
nella “società dell’esperienza”, afferma in un recente saggio il teologo Hans Küng, e in tale
società solo in un caso la morte può essere accettata e suscitare profondo interesse: «solo cioè se
anch’essa è intesa come esperienza vissuta, cioè come esperienza di uomini che sono morti e che sono
poi richiamati in vita dalla morte» (Küng e Jens, 1995, p.22). Di qui l’ampio “uso” strumentale
dell’Nde all’interno dei nuovi “culti dell’esperienza” come la New Age, al fine di rassicurare la
gente impaurita dall’obliterazione della coscienza dopo la morte.
Ma cos’è l’Nde?
Seppure con una incidenza non elevata, si è riscontrato che una certa percentuale di coloro che, in
seguito a un grave incidente o un trauma o una crisi cardiaca, abbiano pensato, creduto, temuto o
percepito, più o meno consciamente e non necessariamente in presenza di un oggettivo pericolo di
morte, che la propria morte fosse imminente, riferiscono di essere stati protagonisti di
un’esperienza descritta come fantastica e “reale” al tempo stesso, come un vero e proprio “viaggio
nell’aldilà” o nel “mondo dei morti”, descritto uniformemente come luogo di pace, serenità e
tranquillità assoluti, che presenta molte somiglianze con quello immaginato da Dante nella “Divina
Commedia” o con quelli immaginati e descritti nei “Libri dei Morti” sia egiziani che tibetani. Molti
di coloro che sono stati o hanno ritenuto di esserlo, sul punto di morire o addirittura sono stati
dichiarati clinicamente morti, hanno poi riferito di essere “usciti dal corpo” e di averlo potuto
osservare dall’esterno; di essere entrati, spesso dopo l’attraversamento di una zona di passaggio
generalmente buia, in luoghi paradisiaci, in un regno di luce e amore, dove avrebbero incontrato
parenti o amici defunti e spesso anche un grandioso “Essere di luce”; alcuni hanno anche riferito di
aver potuto rivedere in breve tempo l’intera esistenza passata e/o, in alcuni casi, anche quella
futura e di avere improvvisamente intuito la vera natura e il vero significato della vita e della
morte; riferiscono poi di essere arrivati in una zona di confine o di aver incontrato un ostacolo, o
l’Essere di luce stesso, che ha impedito loro di andare oltre e che li ha costretti a “ritornare nel
corpo”.
La letteratura sull’Nde mostra numerose incongruenze e in questo scritto accenneremo ad alcune di
esse; assumeremo inoltre un approccio psicofisiologico clinico per il raggiungimento di una più
adeguata definizione, descrizione e comprensione dell’Nde. L’assunto psicofisiologico, della
fondamentale unitarietà dell’essere umano in cui corpo e psiche non sono altro che due facce della
stessa medaglia, si rivela, nello studio dell’Nde, più che in altre possibili esperienze umane, di
particolare validità ed utilità. Esso ci consente, infatti, di giungere ad una considerazione
dell’Nde che nulla ha a che fare con le possibili e, per alcuni, inevitabili ipotesi metafisiche e
prove della “vita oltre la vita”.
Morti oggettivamente o soggettivamente morti?
Molte definizioni dell’Nde sembrano dare per scontato che tale esperienza venga vissuta unicamente
da persone che siano state in reale pericolo di morte, definito come tale sulla base di specifici
parametri medici. Solo pochi autori hanno sottolineato che la semplice percezione della morte come
imminente può essere di per sé una condizione sufficiente perché un individuo viva una Nde, anche in
assenza di una grave crisi organica. Noyes (1972) ha considerato il riconoscimento della morte come
imminente da parte del soggetto come il prerequisito indispensabile per il verificarsi di un’Nde. È,
dunque, più probabile che essa accada, secondo Noyes, in tutte quelle circostanze in cui tale
riconoscimento anche in maniera repentina, è possibile. Questa considerazione di Noyes ha trovato
conferma nella ricerca eseguita dallo stesso autore insieme a Kletti (1976) dalla quale è risultato
che i vissuti che caratterizzano tipicamente un’Nde si presentano con maggiore frequenza in coloro
che avevano creduto di stare per morire rispetto a coloro che non lo avevano creduto.
Riassumendo, si può dunque schematizzare il tutto con la sequenza: 1) trauma psicofisiologico; 2)
vissuto di pericolo di vita; 3) innesco, in alcuni individui per motivi non ancora spiegati, di una
Nde.
Pre-morte o in-morte?
Un’altra critica si può muovere a coloro (ricercatori e soggetti) che considerano l’Nde come
un’esperienza “nella” morte piuttosto che “vicino” ad essa (nonostante l’inequivocabile termine
“near” presente nell’espressione inglese) o in sua prossimità, in senso probabilistico. Ricordiamo
che la morte è la «cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo»,(1) in particolare
delle funzioni psichiche cerebrali e dell’attività dei centri nervosi del tronco encefalico. Quando
si parla di “morte clinica” o di “Eeg piatto”, ci si riferisce solo a segni clinici necessari, ma
non sufficienti a stabilire la morte dell’individuo. È stato dimostrato con esperimenti su animali,
che in presenza di Eeg isoelettrico,(2) rimane comunque una minima attività elettrica cerebrale
rilevabile attraverso elettrodi infissi direttamente nella corteccia e in altre parti dell’encefalo.
Scrive a tale proposito David Lamb, studioso inglese di bioetica: «I mezzi di comunicazione di massa
riferiscono di frequente casi di pazienti “riportati alla vita”; ma questi racconti non possono
essere comunque presi in considerazione […] come esempi di reversibilità della morte. […] Questi
resoconti hanno nondimeno acquistato un significato religioso, grazie ai servizi sensazionali che
compaiono nei mezzi di comunicazione di massa sulle esperienze nell'”oltretomba” (1985, p.23).
In definitiva, chi ha vissuto un’Nde non è mai stato “un morto”, ma di sicuro ha occupato il “ruolo”
del morto, ascrittogli da sanitari frettolosi o da sé (sia durante che dopo l’esperienza).
L’Nde senza dubbio affascina, appaga il desiderio umano di una “vita oltre la vita” (guarda caso è
proprio questo il titolo del best seller di R. Moody), e anche molti studiosi dell’Nde, soprattutto
coloro che hanno personalmente raccolto molti resoconti di tale esperienza, si sono lasciati
influenzare ed affascinare dalla sincerità e dall’intensità emotiva dei racconti dei soggetti
intervistati e, per quanto abbiano precisato che tali soggetti non fossero morti, e che fosse
sensato prendere le opportune distanze da ipotesi di carattere metafisico e trascendente, hanno
finito, in alcuni casi, per indulgere nell’uso di una terminologia estremamente suggestiva di
quest’ultimo tipo di ipotesi, quando non addirittura convincersi che l’Nde sia effettivamente un
“viaggio” nell’aldilà.
Tra le molte ipotesi fino ad ora formulate per spiegare l’Nde (per una trattazione delle quali
rinviamo alla vasta letteratura scientifica e divulgativa), consideriamo del sogno particolarmente
vivido e lucido.
Il sogno è uno degli stati modificati di coscienza più comuni. Per questo, molti, sia tra coloro che
hanno studiato l’Nde, sia tra coloro che l’hanno vissuta in prima persona, hanno ritenuto di poter
paragonare tale esperienza al sogno. Ma numerose sembrano essere le differenze che impediscono una
equivalenza tra Nde e sogno.
R. Moody (1975) evidenzia che coloro che hanno vissuto una Nde, sono individui perfettamente in
grado di distinguere tra sogno ed esperienze reali; inoltre essi parlano dell’Nde come di eventi
realmente accaduti; non di una esperienza sognata, seppur in modo particolarmente lucido e vivido,
ma di una vera e propria esperienza, seppure straordinaria.
M.B. Sabom (1982) ha fatto notare che l’estrema mutevolezza e variabilità dei contenuti dei sogni,
non solo tra persone diverse, ma anche nella stessa persona, contrasta con la straordinaria
ricorrenza di alcuni elementi nell’Nde. Sabom, in accordo con quanto sostenuto da Moody, cita alcune
testimonianze di persone che hanno vissuto l’Nde e che escludono che si sia trattato di un sogno:
«Pensavo: accidenti! Che sogno pazzesco! Ma non era affatto un sogno. Era qualcosa di reale e
concreto che accadeva davvero».
«Si trattava di realtà, e non di allucinazione o fantasia. Lo percepivo nettamente. Non era un
sogno. Quelle cose mi stavano accadendo per davvero. Le vivevo, le sperimentavo, sebbene fossi più
morto che vivo».
«Ho sempre sognato con regolarità e con grande varietà di temi, ma l’esperienza vissuta non si può,
sotto alcun punto di vista, etichettare come un fatto onirico, assolutamente. Era reale al massimo,
concreta. E poi il senso di pace, la favolosa tranquillità. Era questo, forse più di ogni altra
cosa, che la distingueva dal sogno».
Questo evidenziare – commenta Sabom – il profondo senso di realtà dell’esperienza di pre-morte in
confronto all’illusorietà del sogno si ritrova in tutte le testimonianze di coloro che hanno vissuto
ambedue le cose, ed è molto importante. Il fatto di essere in grado di percepire il senso di
irrealtà legato al sogno è fondamentale per il sognatore, stando alle idee di Freud. Gli consente,
infatti, di ottenere una specie di rassicurazione positiva “[…] che mira a ridurre drasticamente
l’importanza e il pathos di ciò che si sogna consentendo al soggetto di tollerarlo comodamente”
[l’interpretazione dei sogni, 1900]. […] L’irrealtà percepita nel fatto onirico consente, in
genere, di proseguire nel sonno ristoratore, nonostante le impressioni sgradevoli o potenzialmente
distruttrici che si possono ricevere sognando. Gli eventi che invece accadono nelle esperienze di
pre-morte sono sentiti come concreti e reali in modo profondo, sia durante il loro svolgersi sia
dopo, allorché li si riconsidera. Senza scordare che, mentre i sogni sono estremamente mutevoli e
variabili, non solo da persona a persona, ma anche rispetto a un medesimo soggetto, le esperienze di
cui discutiamo si attengono tutte a parametri di estrinsecazioni nient’affatto mutevoli, bensì
ricorrenti. Per questo anche l'”enigma sogno” non può spiegare il misterioso fenomeno che stiamo
studiando» (1982, pp.204-205).
Anche le Nde raccontateci da alcune delle persone da noi intervistate, concordano sostanzialmente
con quanto si è appena detto. Giuliana, di 43 anni, così descrive la sua esperienza, escludendo che
si sia trattato di un sogno:
«[…] Ero in macchina, […] sono stata spinta fuori strada e ho preso un albero; […] a quel
punto, dopo l’impatto, sono svenuta, sono stata estratta dalla macchina e sono stata messa per
terra. Per terra, a quel punto, sono uscita dal corpo… però rimanendo vigile; mi sono fatta una
diagnosi, ho visto che era rotto il femore, era rotta la bocca e ho detto: “è più grave la bocca, ma
guarisce prima e non dà problemi; il femore, che è meno grave, mi darà problemi; comunque, il tutto
si risolverà in un mese al massimo, nessun organo vitale è stato toccato”. […] Sapevo che quello
che avevo vissuto era vero, più vero di quello che stavo vivendo dopo. Quindi non era un sogno, non
era una costruzione mentale, non era dovuto a droghe, non era dovuto assolutamente a nulla e non mi
ero sbagliata. […] Io distinguo perfettamente quella che è un’immagine mentale da quella che è
un’immagine emotiva e da quella che è stata quella esperienza lì che non è né mentale né emotiva; è,
inoltre, assolutamente diversa dal sogno».
Anche Giorgio, rimasto in coma 19 giorni, raccontandoci la sua Nde indotta da un incidente d’auto,
l’ha descritta come un viaggio in “Paradiso”. Nel suo racconto usa il termine “sogno” solo perché
non ha altre parole per comunicare ad altri la sua esperienza: «Posso dire che è come se fosse stato
un sogno ma in realtà è come se fosse stato vero».
Oltre al senso di realtà, di chiarezza e lucidità più vicino allo stato di veglia che di sogno,
un’altra variabile che esclude sovrapposizioni tra stato onirico e l’Nde è che questa esperienza la
si ricorda per tutta la vita, resiste all’oblio, ciò che invece non accade nel caso dei sogni.
Le ipotesi esplicative, sia quella del sogno, che tutte le altre (allucinazione, esperienza mistica,
stress neurologico da ipossia, visioni archetipiche, estasi indotta da overdose di endorfine, ecc.),
risultano deboli e non esaustive, perché sono, a nostro avviso, viziate da un preconcetto tacito o
esplicito: l’Nde viene considerata come un’esperienza unitaria, coerente e nel migliore dei casi
come uno stato alterato di coscienza. Invece noi sosteniamo che si debba modificare questa visione
da montaggio “cinematografico” che si ha dell’Nde. Anzi, il montaggio eseguito dal soggetto
narrante, viene complicato dall’opera di “ri-montaggio” da parte dello studioso che cerca
generalizzazioni e visioni unitarie. Se invece iniziassimo a considerare l’Nde non come “uno” ma
come la sequenza (possibile, ma non necessaria, o comunque senza rigida stadiazione) di “stati”
modificati e discreti di coscienza, avremmo la possibilità di circoscrivere e comprendere il
fenomeno dell’Nde entro una cornice ben precisa che vada a contrapporsi alle vaghe e, spesso
contraddittorie definizioni formulate dai vari autori. Per lo studio dell’Nde potremo allora
avvantaggiarci dei modelli, delle procedure di ricerca e delle conoscenze già acquisite nella
ricerca generale sugli stati modificati di coscienza. Potremo allora effettuare analisi
fenomenologiche, formulare ipotesi limitate e focalizzate su ogni singolo e discreto stato di
coscienza indotto dalla prossimità (oggettiva o soggettiva) della morte. Fino ad ora, infatti, tutte
le ipotesi, da quelle meccanicistiche a quelle psicodinamiche, da quelle transpersonali a quelle
metafisiche, si sono dimostrate deboli proprio perché spiegavano “parti” di una esperienza ritenuta
“unitaria”, gestalticamente coesa, discreta, come il sogno, l’orgasmo, l’estasi, ecc. Raggruppando
la fenomenologia e i vissuti dell’Nde in modo da distinguere ognuno dei clusters risultanti come
distinti e discreti stati di coscienza, sarà possibile rivisitare le ipotesi eziologiche e rendersi
conto che non sono poi tutte da espungere. Non è detto, inoltre, che una ipotesi meccanicistica
valga più di una psicodinamica o transpersonale, è solo questione di livelli di analisi (Venturini,
1995), un sogno può essere al tempo stesso il prodotto della stimolazione di particolari
neurotrasmettitori, la soddisfazione allucinata di un desiderio o un messaggio dalle “bande”
transpersonali.
Dunque, pur considerando, in accordo con William James, lo stato di coscienza come un flusso
continuo, suggeriamo di raccogliere tutti i possibili vissuti di una Nde in tre fondamentali stati
modificati di coscienza:
Stato dissociativo: fenomenologicamente caratterizzato da uno stato di dissociazione emotiva fino
all’autoscopia.
Stato implosivo: fenomenologicamente caratterizzato da regressione, memoria panoramica e
comprensione “cosmica” o illuminazione.
Stato relazionale: fenomenologicamente caratterizzato dalla percezione di luce intensa, sentimenti
di amore e incontri con “esseri di luce” o con parenti e amici defunti.
A tali stati va aggiunto quello che chiameremo “passaggio” e che, in realtà, può essere considerato
non tanto come uno stato di coscienza discreto, quanto un momento di transizione tra i tre (di
solito tra il primo e il secondo). Il passaggio è fenomenologicamente caratterizzato dalla
sensazione di attraversare un tunnel buio a grande velocità o dalla sensazione transitoria di oblio
totale oppure di varcare un cancello, un muretto di confine, una soglia, ecc.
Per ognuno dei tre stati, si possono discriminare e analizzare i vissuti che le persone hanno
raccontato più di frequente, adottando come griglia di lettura il modello di Charles Tart sugli
stati alterati di coscienza. In accordo con la “teoria dei sistemi” da lui adottata, Tart (1975)
ritiene che ciascuno stato di coscienza (discreto) non vada considerato come costituito da un
insieme di funzioni psicologiche isolate, ma come un sistema, cioè «una configurazione interagente,
dinamica di componenti psicologiche che eseguono varie funzioni in ambienti che cambiano
notevolmente» (p.25).
Dunque, il tipo di ambiente (fisico e culturale) in cui il soggetto è immerso, insieme alla
configurazione assunta dalle parti che compongono il sistema-coscienza (sottosistemi), determinano
la differenza di caratteristiche assunte dai diversi stati di coscienza.
Tart elenca dieci sottosistemi fondamentali; essi garantirebbero il processo di elaborazione delle
informazioni in arrivo dall’esterno e dal corpo e l’organizzazione delle risposte motorie e
comportamentali ad esse. Infatti il funzionamento di tali sottosistemi nell’ambito di una
determinata gamma di valori, che Tart definisce «previsti e appresi», favorito da tutta una serie di
processi di stabilizzazione, consentirebbe al soggetto di rimanere e di funzionare in uno stato di
coscienza ordinario.
I dieci sottosistemi sono i seguenti:
1) esterocezione;
2) enterocezione;
3) elaborazione dell’input;
4) memoria;
5) subconscio;
6) valutazione e decisione;
7) emozioni;
8) senso dello spazio e del tempo;
9) identità;
10) output motore;
Una griglia di lettura alternativa potrebbe essere quella delle “caratteristiche fondamentali” degli
stati modificati di coscienza, identificate da Arnold Ludwig (1966) sulla base dei suoi studi di
numerosi e vari stati di coscienza. Per buona parte, queste caratteristiche rispecchiano alcuni
sottosistemi di Tart:
1) alterazioni del pensiero;
2) disturbi nel senso del tempo;
3) perdita del controllo;
4) cambiamenti nell’espressione emotiva;
5) cambiamenti dell’immagine corporea;
6) distorsioni percettive;
7) cambiamenti nel significato o senso;
8) senso dell’ineffabile;
9) sentimenti di rinnovamento;
10) ipersuggestionabilità.
Non è nostro intento elencare qui uno per uno tutti i vissuti, le sensazioni, le percezioni dei tre
stati dell’esperienza di pre-morte, leggendoli attraverso la lente della teoria degli stati
modificati di coscienza di Tart o di Ludwig. Viceversa, se volessimo considerare l’Nde come un unico
stato di coscienza, la lettura attraverso le griglie sarebbe affatto chiarificatrice; ci troveremmo,
ad esempio, nell’ambito di un medesimo racconto di un’Nde, a dover collocare in una singola
categoria della griglia, anche tre vissuti differenti. In tal modo la griglia non ci aiuterebbe a
discriminare e quindi non potremmo confermare la discretezza dello stato di coscienza. Ad esempio,
considerando la categoria: “cambiamenti dell’immagine corporea”, notiamo che in una stessa Nde si
può passare da un vissuto di dissociazione dal corpo fisico (autoscopia), alla sensazione di essere
tornato fisicamente bambino, al vissuto di un corpo di luce o globulare. È evidente la difficoltà a
considerare come appartenenti ad un unico stato di coscienza vissuti corporei tanto dissimili;
mentre risulta tutto più chiaro se considerassimo i tre vissuti come appartenenti a tre diversi
stati di coscienza, che, sebbene raramente, possono configurarsi in sequenza. Al momento del
racconto dell’esperienza vissuta, per un processo simile a quello della revisione secondaria dei
sogni, i vari vissuti dei tre stati (più quello del “passaggio”) verrebbero percepiti come
appartenenti ad un’unica sequenza, come episodi di un unico film, e quindi modellati e interpretati
simbolicamente a seconda della cultura di chi ha ritenuto di aver “vissuto la propria morte”.
Note
(1) Legge n.578, 1993, art.1. Corsivo nostro.
(2) Termine tecnico che indica l’Eeg lineare, “piatto”, ossia l’assenza di attività elettrica
cerebrale oltre i 2mv tra coppie di elettrodi posti a 10 o più cm di distanza (G.J. Agich, 1976,
p.98).
Bibliografia
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Sabom M.B. (1982), tr. it. Dai confini della vita, Longanesi, Milano, 1983.
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Venturini R. (1995), Coscienza e cambiamento, Cittadella Editrice, Assisi.
fonte: Informazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria n°30
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