Vivere lo stato dell’Essere
(di Lamberto Breccia)
– L’esperienza del Sé è frutto di abbandono e di non-scelta –
Le principali filosofie «ortodosse» dell’India sono sei (Nyâya, Vaisesika,
Sâmkhya, Yoga, Pûrvamîmâmsâ e Vedânta): tutte riconoscono l’autorità dei
Veda e vengono normalmente definite darsana bramanici (punti di vista sulla
Realtà Ultima), perché esse espongono una visione della stessa Realtà
esperita da più punti di vista.
Occorre considerare che questi darsana non sono da intendersi come sistemi
filosofici prodotti dall’intelletto umano, ma come un’esposizione delle
esperienze di quei filosofi che hanno sperimentato determinti stati di
coscienza o realtà. Questo rende i darsana bramanici dei percorsi spirituali
direttamente accessibili, purché si disponga delle giuste qualificazioni e
dell’ausilio di un Filosofo che abbia già realizzato la meta che si intende
perseguire.
Oltre a ciò tuttora in India convivono movimenti interni, sette, vari tipi
di yoga o tantra, rappresentativi non tanto di un lignaggio ben definito
quanto di un «Baba», âcârya, yogin o guru che dir si voglia.
Il più delle volte questi gruppi abbracciano una visione tradizionale,
solitamente quella Sâmkhya, utilizzando poi tecniche di yoga o più
specificatamente di matrice tantrica: la sâdhana in questo senso è impostata
quasi esclusivamente sull’utilizzo di uno o più metodi capaci di procurare
determinate esperienze o stati di coscienza particolari.
Ecco che troviamo le tipiche trance yogiche, stati ipnotici, alterazioni
varie, siddhi, kundalinî: esperienze che se da una lato implicano un certo
grado di apertura oltre i confini dell’io ordinario, dall’altro sono spesso
lontane dal potere essere considerate esperienze di risveglio o di
realizzazione ultima.
In questo senso la confusione è molta. Infatti è assai differente esperire
stati alterati o di espansione della coscienza, dal vivere lo stato
dell’Essere.
Molte delle tecniche psicocorporee tipiche degli yoga, facendo leva sulle
energie del corpo, e sulla shakti in genere, inducono modificazioni nella
coscienza, espandendola e legandola a stati beatifici e luminosi. Queste
esperienze acquistano importanza in quanto sono in grado di causare un certa
integrazione tra i vari piani dell’essere, inoltre si qualificano come
propedeutiche a quello che può essere definito lo «Stato Ultimo». In questo
senso non devono però trarre in inganno e indurre a credere di avere
realizzato «Quello».
La realizzazione di alcuni stati può aprire la strada all’idea che
l’esperienza ordinaria della realtà non sia così assoluta, unica e vera, e
che probabilmente è possibile avvicinarsi ad una percezione del mondo non
più determinata, vincolata e caratterizzata a partire dal centro rigido e
personale chiamato «Io».
Nessun processo che faccia leva sul «grossolano» cioè corpo-energia-mente
può determinare la Realizzazione. Lo stato Ultimo è incausato, nel senso che
poggia su sé stesso in sé stesso e non può essere determinato da nulla; in
caso contrario non sarebbe Assoluto: come potrebbe infatti l’Ultima realtà
essere creata, prodotta o raggiunta da qualche cosa quando in realtà ogni
cosa, ogni fenomeno, poggia, esiste e diviene grazie ad Essa, Brahman?
L’Âtman-Brahman è irraggiungibile, inafferrabile, invisibile, inudibile e
non può essere conosciuto né tramite i sensi, né tramite il pensiero, né
tramite gli strumenti che il corpo ci offre; non può essere frutto di
percezione. Al contrario, il corpo, i sensi, la mente sussistono tramite il
Sé-âtman.
Per il ricercatore, per il vero yogin, è dunque molto importante non
confondere i differenti stati di trance prodotti grazie all’utilizzo di
determinate tecniche con l’«esperienza» dell’Essere. I primi sono frutto di
sforzo, di tecnica e di un «Io» volitivo, che cerca e raggiunge determinate
esperienze, che sono ancora da considerarsi delle vritti, o modificazioni
mentali. Lo stesso Vuoto è ancora una modificazione, in quanto
prodotto-immagine della mente e nella mente. In tal senso questo tipo di
esperienze, rappresentando ancora dimensioni legate al pensiero e alla
percezione, possono essere pericolose, in quanto nella loro sottigliezza ed
estatica gioia esercitano un’attrattiva molto forte. Il distacco come sempre
è lo strumento migliore.
L’esperienza del Sé o samâdhi è al contrario frutto di abbandono e di
non-scelta. Nel samâdhi savikalpa, per esempio, nonostante sussista ancora
una certa determinazione e qualificazione (saguna), l’ego scompare e la
coscienza si palesa nel suo aspetto universale. Ciò sta a significare che
l’esperienza di tale stato non presuppone un determinato tipo di percezione,
in quanto colui che percepisce viene a scomparire. Soggetto e oggetto si
«annullano».
Il samâdhi è frutto di resa e di non-tensione: sino a quando rimane un
seppur minimo grado di volitività tensiva, permane invece l’individualità.
Nel samâdhi ogni volontà personale cessa e lascia il posto ad un’ inversione
della coscienza che, sprofondata in se stessa, non viene ad essere più
determinata e rappresentata limitatamente dal «nucleo» centrale o senso
dell’io egocentrico (ahamkâra).
Spesso le tecniche giunte in occidente e lo stesso approccio allo Yoga sono
di tipo manipolativo: il loro utilizzo tende a rinforzare, cristallizzare e
perpetuare l’ego ordinario anziché lavorare nella direzione
dell’integrazione, risoluzione e trascendenza.
L’enfatizzazione della tecnica consolida l’idea che ci sia un obiettivo da
raggiungere nella prospettiva del tempo e dello spazio, e che l’Essere sia
«trovabile» in qualche luogo in seguito ad un determinato sforzo in questa
direzione. Ecco che invece di lavorare in senso eliminativo, (neti neti)
andiamo ad accumulare tecniche, dinamiche e strategie mentali che rinforzano
l’idea di ricerca nella direzione dello sforzo. Dietro a questo tipo di
movimento c’è sempre un ego che sta cercando di perpetuarsi.
Ogni tentativo di avvicinarci a «questa posizione» in realtà ce ne
allontana, perché frutto di una mente ancora attiva che cerca conferma di sé
muovendosi in base a coordinate spazio-temporali. Un ego che nella ricerca
stessa continuerà a sussistere perché gratificato dalla fruizione di
determinate esperienze e perché convinto di esserne l’artefice.
Il Sè non è frutto di sperimentazione, ma di realizzazione, che significa
identità-conoscenza.
Ogni tecnica o tantra dovrebbe essere utilizzata solamente come fase di
purificazione e rettificazione delle energie psicofisiche e dei contenuti
mentali (samskâra): processo per altro già cominciato grazie a yama e
niyama. Ogni tecnica inoltre può solamente aiutarci ad intuire l’idea
dell’abbandono, della resa totale necessaria per essere accolti nelle
braccia dell’Essere.
In questo senso ci sono modalità che «ingabbiano» e modalità che «liberano»:
tutti i lavori che enfatizzano lo strumento, le tecniche di tipo
manipolativo e di controllo coercitivo sono da intendersi gabbie; tutti i
lavori che non permettono alla mente di mostrarsi per quello che è, nei suoi
aspetti luminosi ed oscuri, sono prigioni.
La pratica che al contrario tende alla purificazione meditativa e che offre
la possibilità di accogliere con capacità sempre maggiore quegli aspetti
individuati come «non desiderati» e relegati per tale motivo nelle
profondità del nostro inconscio, libera.
L’utilizzo scorretto di simboli, yantra, mudrâ, mantra, prânâyâma agisce in
questa direzione: blocca il processo mentale in una sorta di paralisi
concentrativa, che non è frutto di pura attenzione ma di sforzo coatto,
impedendo alla coscienza sia di aprirsi alla sue dinamiche
tamasiche-rajasiche, sia di librarsi verso orizzonti nuovi sattvici e del
Sé.
L’atteggiamento che sta alla base di queste pratiche è la paura. Uno dei
demoni più difficili da accogliere e integrare è la paura della paura. La
pratica legata al controllo è frutto di paura. Il vero controllo non è
frutto di sforzo bensì di conoscenza intuitiva che, sola, sa comprendere e
accogliere.
E’ importante quindi osservare bene se la pratica è mossa dal tentativo di
fuggire la paura, o è mossa dal sincero anelito alla conoscenza di sé.
Nel primo caso presto o tardi accadrà che i contenuti mentali da cui ci si è
allontanati e che per un certo tempo è stao possibile tenere sotto controllo
riemergeranno, probabilmente ancora più forti di prima.
Nel secondo caso bisogna accettare la prospettiva che per conoscere sé
stessi è necessario procedere nel tentativo di accogliere quelle parti
indesiderate e che mai si sarebbe pensato di poter avere. Solo così l’ascesi
coscienziale permetterà di liberarsi sempre più dai lacci dei movimenti e
contenuti mentali generati dall’ego.
L’ascesi yogica lungo i vari livelli di cosapevolezza è un’ascesi interiore
lungo piani coscienziali ed esistenziali (cakra). Possiamo sintetizzare le
varie tappe nei seguenti punti:
– sfera lagata alla parte inconscia, e alle forze istintuali
– sfera lagata alla forza sessuale
– sfera legata all’ego (manas) in quanto desiderio-emozione, passione ed
azione individuata
– sfera legata al desiderio d’amore purificato e centro di integrazione tra
i piani inferiori e quelli sattvici
– sfera legata al puro intelletto o buddhi
– sfera legata al pensiero intuitivo, e di unità coscienziale (Shiva)
– consapevolezza pura Paramshiva
Moksha è la liberazione dall’identificazione vincolante con l’individualità
personale ristretta e limitata. Liberazione che è frutto di distacco e
discriminazione, di abbandonao ad Îsvara e di costante meditazione sul
Brahman. La moksha porta con sè la morte di ogni idea-percezione-opinione
personale, per rinascere ad una nuova «condizione» che in realtà non ci ha
mai abbandonato. Essenza ed esistenza assoluta (sat),
coscienza-consapevolezza assoluta (cit), beatitudine e pace assoluta
(ânanda).
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