Vortici e vertigini

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Vortici e vertigini

di Marco Fulvio Barozzi

“(…) Mentre l’uomo parlava, cominciai a sentire un suono cupo, crescente, simile al muggito di una mandria di bufali nella prateria americana, e nello stesso tempo notai che l’aspetto dell’oceano sotto di noi, da quello che i marinai chiamano rotto stava rapidamente mutandosi in una sorta di corrente diretta verso est. (…) Mentre l’osservavo, questa corrente acquistò una impressionante velocità, che cresceva ad ogni istante… fino a diventare travolgente: in cinque minuti l’intero mare fino a Vurrgh fu travolto da una furia incontrollabile; ma fu tra Moskoe e la costa che il fragore raggiunse la massima violenza. Qui il vasto letto delle acque si fondeva e si divideva in mille torrenti in lotta tra loro, esplodendo all’improvviso in frenetiche convulsioni – gonfiandosi, ribollendo, sibilando – roteando in innumerevoli, giganteschi vortici, turbinando e precipitando verso oriente con la velocità dell’acqua di una cascata.
Ancora pochi minuti ed ecco un altro radicale mutamento di scena. La superficie si calmò, divenne liscia, sparirono i vortici, mentre comparivano strisce di spuma dove prima non c’erano. Queste strisce s’allungarono, si fusero l’una con l’altra, fino a formare l’embrione di un ben più vasto vortice. E infatti all’improvviso, questo prese consistenza sotto forma di un cerchio di oltre un miglio di diametro. L’orlo del vortice era formato da una larga fascia di spuma scintillante, ma nemmeno una goccia di tale frangia cadeva nella bocca del terrificante imbuto, il cui interno, fino dove arrivava l’occhio, era una parete d’acqua liscia, brillante, nerissima, inclinata a quarantacinque gradi sull’orizzonte, animata da un moto rotatorio e insieme ondulatorio lungo il perimetro esterno, capace di emettere un suono pauroso, per metà urlo e per metà ruggito, più intenso di quello che sia mai salito al cielo nella sua angoscia dalla possente cascata del Niagara.
La base della montagna e la stessa roccia tremarono ed io, terrorizzato, mi gettai a terra abbarbicandomi ai radi ciuffi d’erba.
«Questo», disse il vecchio, «questo non può essere altro che il grande vortice del Maelström».”

Forse perché hanno la stessa origine etimologica (dal lat. vèrtere, “girare, volgere”), le parole vortice e vertigine si accompagnano spesso nella storia delle idee. Così, lo spaventoso vortice descritto da Edgar Allan Poe nel suo celebre racconto Una discesa nel Maelström (1841) è più o meno coevo delle vertigini dei poeti romantici e maledetti (la “languida vertigine”, o la Vertigine – maiuscola! – indotta dall’apertura di una misteriosa boccetta di profumo orientale in Baudelaire, ad esempio), talvolta legate all’abuso di alcool e/o oppiacei (come in De Quincey), o ai capogiri delle delicate signore e signorine borghesi di fronte alla minima emozione improvvisa. Anche Pascoli si cimentò in una poesia di tono mistico, La vertigine (1909) in cui “Si racconta di un fanciullo che aveva perduto il senso della gravità…” e che associa di nuovo i due termini nel precipitare del protagonista verso l’alto “in quel mare / d’astri, in quel cupo vortice di mondi!”. Non so se sia un caso (e per me non lo è), ma è interessante notare come nella seconda metà dell’Ottocento, accanto alle vertigini dei letterati, il concetto di vortice acquistò un particolare interesse nello sviluppo della fisica, svolgendo un ruolo fondamentale non solo nella dinamica dei fluidi, ma anche nella nascente teoria dei campi elettromagnetici e nei primi tentativi di schematizzazione della struttura della materia.

I vortici di Maxwell
Con il suo secondo lavoro sulla teoria elettromagnetica (On the physical lines of force, 1861), il grande fisico scozzese James Clerk Maxwell proponeva un modello che, come scrisse egli stesso, potesse “esaminare i fenomeni magnetici da un punto di vista meccanico” e “collegare i fenomeni dell’attrazione magnetica con i fenomeni elettromagnetici e con quelli delle correnti indotte”. La base di questa teoria del campo elettromagnetico era un modello che impiegava “vortici molecolari”, con gli assi di rotazione orientati lungo le linee del campo magnetico. L’idea di Maxwell di utilizzare un modello a vortici per esprimere le caratteristiche fisiche di un mezzo atto a trasmettere le azioni elettromagnetiche derivava dall’interpretazione data da William Thomson (in seguito divenuto Lord Kelvin) all’effetto Faraday, la rotazione del piano di polarizzazione della luce che attraversa un materiale dielettrico trasparente quando è sottoposto a un intenso campo magnetico. Thomson ipotizzava che questo fenomeno fosse causato dall’accoppiamento tra le vibrazioni dell’etere luminoso e le rotazioni di vortici molecolari in un mezzo materiale, nel quale gli assi di rotazione dei vortici si allineavano alla direzione delle linee di forza del campo magnetico. L’idea dei vortici si stava facendo strada: anche John William Rankine, verso la fine degli anni Quaranta, aveva proposto una teoria della materia per interpretare le proprietà termodinamiche dei gas, nella quale le molecole erano spiegate come piccoli nuclei di atmosfere eteree rotanti nello spazio con velocità proporzionale alla temperatura.

Nelle prime parti del suo articolo Maxwell illustrava il suo modello e come esso possa essere applicato per ottenere le equazioni fondamentali del campo elettromagnetico. Lo spazio era considerato come un fluido nel quale ruotano “innumerevoli vortici”, i cui assi di rotazione coincidono con la direzione delle forze magnetiche in ogni punto del campo. In assenza di vortici la pressione è uguale in tutte le direzioni; mentre in presenza di vortici le forze centrifughe, causate dalla rotazione di questi, fanno in modo che ogni vortice si contragga longitudinalmente ed eserciti radialmente una certa pressione dipendente dalla velocità. Faraday, in un articolo del 1852, aveva già proposto una descrizione qualitativa dei fenomeni magnetici ed elettromagnetici ipotizzando un accorciamento longitudinale delle linee di forza e una mutua repulsione laterale.

Il passo successivo, per Maxwell, era considerare la velocità angolare di ogni vortice proporzionale all’intensità locale del campo magnetico. In questo modo egli ottenne che le espressioni delle forze agenti tra magneti, correnti elettriche e diamagneti fossero identiche. Il fisico si poneva poi il problema di “descrivere il meccanismo tramite il quale queste rotazioni possono essere fatte coesistere, ed essere distribuite secondo le leggi note delle linee di forza magnetiche”. In altre parole, bisognava spiegare come fanno due vortici adiacenti a ruotare liberamente nello stesso senso, visto che le loro superfici si muovono in direzione opposta. L’ipotesi introdotta da Maxwell fu di “concepire la materia rotante come sostanza di certe celle, separate tra loro da pareti (cell-walls) formate da particelle molto più piccole delle dimensioni delle celle”. Queste particelle, costituenti le pareti di separazione tra i vortici, da Maxwell identificate con la “materia dell’elettricità”, comunicano rotolando la rotazione da una “cella” all’altra. In questo quadro l’elettricità acquisiva caratteristiche completamente diverse da quelli usuali: invece di essere un fluido confinato nei conduttori, essa era diffusa ovunque, libera di muoversi nei conduttori (anche se soggetta a una resistenza) e bloccata nei dielettrici (compreso lo spazio, il dielettrico primordiale).

Durante l’estate del 1861, Maxwell elaborò ulteriormente il suo modello a vortici, introducendo l’idea che la sostanza ruotante nelle celle possegga proprietà elastiche “simili a quelle dei corpi solidi anche se di grado diverso”. “La teoria ondulatoria della luce – scriveva Maxwell – ci richiede di ammettere questo genere di elasticità nel mezzo luminifero, per poter render conto delle vibrazioni trasverse. Non dobbiamo quindi essere sorpresi se il mezzo magneto-elettrico possiede le stesse proprietà”

La descrizione dell’elettricità ricavata dal suo modello gli permetteva di considerare i fenomeni di polarizzazione dei dielettrici come un caso particolare dei fenomeni di conduzione. Quando una differenza di potenziale è applicata a parti diverse di un corpo si hanno due possibili effetti. Se il corpo è conduttore, la “materia dell’elettricità” si muove rotolando tra le superfici dei vortici dando luogo alla corrente elettrica: le forze tangenziali impresse dalla materia delle celle sono le forze elettromotrici e la pressione che le particelle esercitano le une sulle altre corrisponde al potenziale dell’elettricità. Se il corpo è un isolante, la differenza di tensione viene immagazzinata nel mezzo elastico sotto forma di energia potenziale tramite le deformazioni dei vortici molecolari. A differenza di quanto avviene in un conduttore, l’elettricità rimane legata alle molecole e non passa da una molecola all’altra.

Maxwell quindi concludeva che la distinzione tra conduzione e induzione elettrica statica è simile alla distinzione che nella materia viene fatta tra processi viscosi e processi elastici: il conduttore è assimilabile a una membrana porosa che oppone una maggiore o minore resistenza al passaggio di un fluido, mentre un dielettrico si comporta come una membrana elastica che è impermeabile al fluido, ma ne trasmette la pressione da una parte all’altra. In questo modo Maxwell ottenne due fondamentali risultati. Il primo riguardava il fatto che una corrente variabile in un conduttore induce nel mezzo circostante piccoli cambiamenti nelle posizioni delle particelle elettriche, cioè l’effetto della corrente variabile è quello di suscitare delle piccole correnti nel mezzo associate allo spostamento delle particelle. Questo permetteva a Maxwell di completare le sue equazioni tenendo presenti gli effetti di quelle che ancora oggi sono chiamate correnti di spostamento. Inoltre, visto che il mezzo è elastico, è possibile determinare la velocità con la quale il disturbo elettromagnetico si propaga attraverso di esso. Sulla base dei calcoli fatti utilizzando il suo modello, Maxwell concluse che “(…) ci sarebbe difficile non inferire che la luce consista nei moti ondulatori trasversi dello stesso mezzo che è la causa dei fenomeni elettrici e magnetici.”

Furono così delineati i fondamenti di quella che nel lavoro successivo egli avrebbe chiamato la teoria elettromagnetica della luce. Il modello a vortici consentì a Maxwell di formulare il sistema delle equazioni per il campo elettromagnetico. Tuttavia, furono proprio alcune difficoltà interpretative delle sue equazioni che avrebbero decretato l’abbandono del modello verso la fine secolo.

I vortici di von Helmholtz

Nel 1858 Herman von Helmholtz pubblicò un articolo in cui si occupava delle equazioni idrodinamiche di un fluido in presenza di vortici (Uber Integrale der hydrodynamischen Gleichungen, welche der Wirbelbewegung entsprechen). Una teoria matematica del moto dei fluidi era stata elaborata, a partire da Eulero e Lagrange, tra il Settecento e i primi decenni dell’Ottocento. Il sistema di equazioni differenziali che la esprimevano, però, era stato risolto solo nel caso di moti irrotazionali, privi cioè di vorticità. Nell’articolo, Helmholtz riusciva ad ottenere alcuni fondamentali risultati nel caso di moti vorticosi, grazie all’individuazione di nuove grandezze per la descrizione del problema e all’uso originale di concetti e strumenti matematici.

Il fluido considerato da Helmholtz è omogeneo, incomprimibile e con viscosità uguale a zero. Ad ogni punto del fluido si può pensare associata una grandezza (oggi lo chiameremmo un vettore) che rappresenta la vorticità, con direzione perpendicolare al piano di rotazione. Si possono allora considerare nel fluido le curve ideali che hanno come tangenti, punto per punto, le vorticità: Helmholtz le chiamò linee o filamenti di vortice. Infine, ad ogni curva chiusa idealmente disegnata nel fluido è associato quello che Helmholtz definiva un tubo di vortice, formato dalle linee di vortice che la attraversano, la cui superficie laterale è individuata dalle linee di vortice passanti per i punti della curva chiusa. La prima conclusione di Helmholtz è che, date le caratteristiche del fluido, in ogni sezione del tubo di vortice il prodotto dell’area della sezione per la velocità media di rotazione ha un valore costante (a questa costante Helmholtz diede il nome di intensità o forza del tubo di vortice). Tre sono i risultati generali che Helmholtz ottenne su questa base:
– i tubi di vortice non possono iniziare o finire dentro il fluido: essi devono chiudersi su sé stessi (formando anelli) o avere gli estremi sulla superficie libera del fluido (e, nel caso di un fluido distribuito su un volume infinito, essi devono chiudersi su sé stessi o essere infiniti):
– parti di fluido esterne al tubo di vortice non lo attraversano e parti di fluido interne al tubo di vortice non ne escono;
– l’intensità del tubo di vortice rimane costante durante il suo moto (comprese eventuali deformazioni continue, cioè senza tagli, del tubo di vortice).

I vortici di Kelvin

L’articolo di Helmholtz fu accolto con entusiasmo dai colleghi d’oltremanica ed esercitò una decisiva influenza sull’avvio della cosiddetta teoria dell’atomo-vortice di William Thomson, lord Kelvin. Oltre a ciò, nell’ambito della fisica matematica, ispirò sia le ricerche condotte da Tait, e successivamente da Maxwell e W. Thomson, sui quaternioni e sui vettori.

Peter Guthrie Tait, subito dopo la lettura dell’originale articolo di Helmholtz del 1858, decise non solo di tradurlo, ma di darne anche una dimostrazione pratica in una serie di esperimenti con gli anelli di fumo per i quali aveva realizzato una apposita smoke box. La “stupenda esposizione pratica di anelli di fumo” fatta da Tait fu lo stimolo decisivo per la ripresa dei risultati di Helmholtz da parte di Kelvin da cui nacque la teoria dell’atomo-vortice. Nell’incipit del suo articolo On vortex-atom del 1867 si legge infatti: Dopo aver saputo dell’ammirevole scoperta di Helmholtz della legge relativa al moto vorticoso in un liquido perfetto […] l’autore ha affermato che inevitabilmente questa scoperta suggerisce l’idea che gli anelli di Helmholtz siano i veri e soli atomi. Infatti l’unico pretesto che sembra giustificare la mostruosa assunzione di pezzi di materia infinitamente duri e infinitamente rigidi, la cui esistenza viene affermata in termini di ipotesi verosimile da alcuni dei maggiori chimici moderni nelle loro sconsiderate proposizioni introduttive, è quello su cui insistette Lucrezio e che fu adottato da Newton – e cioè quello secondo cui tale ipotesi sembra essere necessaria per rendere ragione dell’inalterabilità delle qualità distinguibili nei differenti tipi di materia.

L’atomo doveva possedere innanzitutto la proprietà di essere permanente ed era difficile pensare a una qualsiasi entità solida che non si potesse rompere, qualora si fosse applicata la forza, la temperatura o la reazione chimica necessaria. E, proseguiva Thomson, il moto vorticoso di Helmholtz ha, come gli atomi pensati da Lucrezio, la stessa caratteristica di inalterabilità, una caratteristica “infinitamente perenne” che “solo un atto di potenza creatrice può generare o distruggere”. Siccome poi qualunque concatenamento di anelli o nodo sugli anelli si mantiene invariato nel tempo, essi offrono una possibile spiegazione della varietà dei diversi atomi che individuano i diversi elementi chimici. Infine, sottolineava Thomson, se si accetta “l’ipotesi secondo cui tutti i corpi sono costituiti da atomi-vortice immersi in un liquido perfettamente omogeneo” si ha come risultato “quello di diminuire di una unità il numero delle assunzioni che sono indispensabili se si vuole dare una spiegazione delle proprietà della materia”: i vortici anulari potevano da soli spiegare le forze reciproche tra gli atomi e i loro scambi di energia, “senza dover ricorrere ad alcun’altra proprietà della materia sul cui moto esse si basano che non siano l’inerzia e l’incomprimibilità dello spazio occupato”.

In tal modo, la teoria dell’atomo-vortice rappresentava un fondamentale punto di riferimento per una teoria della materia che “salva l’evidenza sperimentale” senza introdurre nuove ipotesi per ogni aspetto della dinamica degli atomi. Da questa teoria infatti, affermò Maxwell nel 1875, si doveva poter derivare le leggi generali del moto a partire da un unico oggetto primordiale, il mezzo etereo universale, mantenendo, e anzi consolidando, l’unità della teoria dinamica dei fenomeni fisici.

L’articolo di Thomson diede un grande impulso a una serie di ricerche dominate dal legame tra topologia e fisica, che coinvolgevano, pur con motivazioni diverse, Maxwell, stimolato dai suoi interessi sia nei fenomeni elettromagnetici sia nella teoria cinetica dei gas, Kelvin, motivato dalla sua teoria sulla struttura della materia, e Tait, che si impegnò per vari anni nella classificazione dei nodi, alla ricerca di una conferma dell’ipotesi di Kelvin di una relazione tra le classi di configurazione topologicamente equivalente dei nodi e le tipologie degli atomi che individuano i diversi elementi chimici e i loro composti.

Proprio questa opera di classificazione da parte di Tait fece emergere una delle prime difficoltà della teoria dell’atomo-vortice: l’enorme numero di configurazioni non equivalenti trovate rispetto alla varietà degli elementi chimici noti (con dieci intrecci si hanno 165 nodi diversi, con tredici più di diecimila). Ma, pur evidenziando uno dei limiti del modello, le ricerche in questo ambito costituirono il primo esempio dell’interesse per le possibili implicazioni fisiche di quel settore della matematica che era stato chiamato topologia da Johan Benedict Listing nel 1847 e che dalla fine dell’Ottocento avrebbe acquisito lo status di settore autonomo della thompvort8matematica. Nonostante i problemi incontrati dalla teoria dell’atomo vortice (al problema del numero delle configurazioni topologiche inequivalenti si aggiungeva il problema delle effettive condizioni per la stabilità degli anelli di Helmholtz), l’idea di concepire la materia come uno stato di moto di un fluido etereo primordiale proseguì fino ai primi anni del Novecento. Tra le tappe significative, nell’ambito della ricerca fisica, è il caso di ricordare quella segnata dal trattato sul moto dei vortici anulari del 1883 di J. J. Thomson (A Treatise on the Motion of Vortex Rings), in cui si sottolineava la semplicità concettuale del modello a vortici rispetto ai modelli atomistici: “accettate le leggi idrodinamiche non si richiede l’introduzione di forze tra particelle per spiegare il comportamento degli aggregati, come invece richiesto nella teoria cinetica dei gas”. Furono tuttavia le ricerche svolte proprio da J.J. Thomson sul modello a vortici che avrebbero condotto alla sua scoperta dell’elettrone, la quale avrebbe svolto un ruolo decisivo nell’abbandono del modello di Kelvin come ausilio per l’indagine fisica a livello atomico.

Nuovi vortici, nuove vertigini

Con la scoperta dell’elettrone e i successivi sviluppi della relatività e della meccanica quantistica, le idee di Lord Kelvin furono essenzialmente accantonate. La geometria e la fisica, pur continuando ad avere punti di contatto (basti pensare a come, nella teoria della relatività generale, la forza gravitazionale venga interpretata come curvatura locale dello spazio-tempo), presero strade in gran parte indipendenti. Solo in tempi recenti le interazioni tra geometria e fisica si sono moltiplicate e coinvolgono la meccanica quantistica, nella quale emergono significative relazioni con la topologia. In questo senso la geometria torna ad essere implicata nella fisica, offrendo tra l’altro risposte a quesiti riguardanti alcune proprietà fondamentali delle particelle elementari.

Ritornati dal loro provvisorio esilio nella meccanica dei fluidi, i vortici appaiono oggi in molti modelli, sia in fisica delle particelle elementari sia in fisica della materia. Li troviamo anche coinvolti nella controversa teoria delle corde e costituiscono argomento di indagine della moderna cosmologia, in un vortice di prospettive davvero vertiginose.

da keespopinga.blogspot.it

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